domenica 28 ottobre 2007

La Fôla d’Mingon ...

... e della principessa degli indovinelli[1]

(come la raccontava Cömo)

Mingon era l’ultimo di parecchi fratelli. La famiglia viveva in un piccolo villaggio ed era condotta dalla madre, una povera e sfortunata vedova che aveva ben cresciuto i suoi figli e trovato loro il modo di sfamarsi, chi lavorando la terra, chi imparando a fatica un mestiere. Il solo che non riusciva a sistemare era Mingon, tutto sommato un buon ragazzone, ma disinteressato verso ogni cosa concreta, un tipo insomma senza arte né parte.

Era ormai un tabacaz ins la vintena[2]ed in paese era considerato un sempliciotto con la testa per aria, per non dire uno dei tipi più svitati che vi si potessero incontrare. La madre, da parte sua, soffriva la lenta maturazione del ragazzo e temeva che, il giorno in cui non avesse più potuto contare sulle cure materne, egli non avrebbe saputo affrontare le tante asprezze della vita. Le preoccupazioni, poi, si tramutarono in disperazione, quando la povera donna s’accorse dello strano interesse del figlio per un inconsueto bando della reggia che s’era udito in paese.

Il monarca di quello sperduto reame aveva un’unica figlia molto bella, ed altrettanto istruita e bizzarra, che pareva non volersi maritare. Aveva avuto sette maestri, aveva letto tutti i libri che c’erano al mondo, eppure a lei, ormai a ridosso dei vent'anni, piaceva solamente studiare.

Un giorno, i due genitori, giunsero a fare alla principessa un breve discorsetto circa le necessità imprescindibili del regno e l’opportunità di assicurare ai loro sudditi una tranquilla successione.

«Giusto» disse lei, «ma l’uomo che sposerò, a m’e’ dlez pu me[3] ».

«Per noi non ha importanza» le risposero, «purché tu non perda troppo tempo».

«Allora» disse la principessa «diffondete un bando ovunque, annunciate che io sono disposta a sposare l’uomo che mi avrà fatto cinque domande in fila a forma di indovinello ed a cui io non sarò stata capace di rispondere. Possono venire tutti, dai diciotto ai quarant’anni, poveri o ricchi, di stirpe reale, oppure anche d'zöca d'róvra[4] non ha importanza, ma voglio che ci pensino bene prima di venire, perché se risponderò alle domande, sarà loro tagliata la testa».

«Perché figliola mia? Così, a tanti poveri ragazzi, toccherà la morte...».

«Mamma» disse lei, «io voglio che le persone che vengono a pormi gli indovinelli abbiano coraggio, e in più che sappiano quel che dicono. T’immagini quanta gente verrebbe qua con una fila di stupidaggini se non ci fosse anche un gran pericolo? Se avverrà che io non sia capace di rispondere, significherà che avrò trovato un uomo coraggioso e bravo, non ti pare?»

Il giorno dopo fu subito diffuso un bando ai quattro venti, e quando l’annuncio giunse all’orecchio di Mingon, lui che dal suo paese non s’era mai spinto per oltre un miglio, seguì i banditori alla fontana dove abbeveravano i cavalli. Chiese loro: «Posso dunque andarci anch’io?».

Un graduato gli disse: «Se ti dà fastidio la testa sul collo, puoi andarci quando vuoi».

«Proprio davvero?»

«Fa un po’ come vuoi, la testa è tua!»

Giunto a casa disse subito a sua madre che sarebbe andato a fare le sue domande alla principessa.

«Ma sarai matto!» disse subito lei. Mingon tuttavia fu irremovibile; insistette nell’intenzione di partire l’indomani e di andare al castello reale a tentare la sorte. A nulla valsero le raccomandazioni materne: «Ma perché, figliolo mio, vuoi andare a rischiare la vita? Lei è la più istruita del mondo, e tu non sai neanche disegnare una “O cun un bichir… Ma quali indovinelli le presenterai?».

«A quelli ci penserò strada facendo…»

Quando la donna, poveretta, capì che non c'era proprio nulla da fare, e si rese conto delle disgrazie che il figlio avrebbe certamente arrecato prima di tutto a se stesso, giunse ad una decisione dolorosa: «Morire per morire, è meglio che il mio figliolo lo ammazzi io che sono sua madre, in modo da risparmiargli tutte le sofferenze che lo aspettano...».

Prima che Mingon partisse, l’anziana madre gli infilò premurosamente in saccoccia un paio di monete ed un po’ di piada avvelenata che avrebbe mangiato per strada, ai primi morsi della fame.

Salutata la madre, il ragazzone si mise in cammino, con la gulpê[5] sulla spalla, seguito a pochi passi da Bello, il suo cagnolino, che non volle staccarsi dal padrone. Fatta un po’ di strada e visto il cane più affamato di lui, Mingon prese la piada dalla gulpê, ne allungò un morso alla povera bestia, e questa in pochi minuti rimase stecchita. Sbigottito, disse fra sé:

Chi mi amava mi tradì, can fedel per me morì

Deciso a proseguire il suo viaggio, allungò il passo ed arrivò sulla riva di un grande fiume. Cercò il punto dove poterlo attraversare e vide un vecchio traghettatore in attesa, seduto sulla sua barca. Chiese di essere trasportato dalla parte opposta ma, il passatore, che non voleva s-ciantês al braza par du valon[6], si rifiutò. Occorrevano non meno di cinque persone per una traversata e lui, Mingon, viaggiava solo. Non restava, dunque, che aspettare.

Cominciò a piovere a dirotto. Si riparò sotto una rudimentale tettoia e di lì osservò gli schizzi d'acqua che cadevano ripetutamente sopra un sasso ai bordi della strada ed il piccolo incavo che era venuto a formarsi nella pietra, cadendo l’acqua da tempo sopra lo stesso punto.

Dopo un po’ arrivarono altri due viandanti, anch’essi invitati dal traghettatore ad aspettare. Cessato il temporale, giunsero altri due passeggeri e, così, Mingon poté rimettersi in viaggio.

Durante l’attraversamento, vide sette cornacchie posarsi sopra la carogna di un asino morto spinto dalla fiumana nella corrente. Mentalmente, così sintetizzò l’accaduto:

A j ò vest e’ murbi che int e’ dur furéva,

s'u n’éra i du, i tri i-n paséva

E' môrt che sët viv purtéva...[7]

Cammina e cammina, cominciò ad aver fame. Dopo un po’ vide un albero carico di mele, tutte però ad un’altezza proibitiva. Prese una pietra, la lanciò verso l’alto per abbattere qualche frutto, ma non ci riuscì. Cadde invece un passero, di cui non si era neppure accorto, e l’avvenimento, egli lo riassunse mentalmente così:

Tiro a chi vedo e ammazzo chi non vedo

Composti e completati gli indovinelli, Mingon si rimise in marcia di buona lena ed il giorno dopo arrivò in prossimità del palazzo del Re.

La piazza era gremita di gente; pian piano il giovane si fece avanti fra la folla e quando vide il palco col ceppo e la mannaia che vi era appoggiata, fu preso da un certo batticuore. Guardò la bella principessa sistemata in un palco più basso, seduta sul suo scranno e con un fitto contorno di donne. In quel momento stava ascoltando un barone che veniva da molto lontano. Il poveraccio, una dopo l’altra fece le sue domande, ma lei, guardandolo duramente in faccia, gli diede sempre la risposta. Allora lui, a testa alta, fece i tre o quattro scalini fino al ceppo e s’inginocchiò; il boia, un tipo corpulento e di pochi riguardi, gli staccò la testa cun ‘na böta dla manéra[8] e la gettò nel cesto. Lestamente buttò, poi, un secchio d’acqua sopra il ceppo e la mannaia; infine, incrociò le braccia aspettando l’esecuzione successiva. La principessa invece si alzò, andò a fare un giretto ed a mangiare due o tre ciliegie con le amiche; il boia a quel punto, credendo finita la seduta, disse alle guardie: «Vado a casa, visto che ho l’orto da annaffiare e devo dar da mangiare al maiale».

Mingon, davanti al macabro spettacolo, fu preso da una tale tremarella che i znŏc i sbatéva insen coma dal gnàcar[9]. Gli venne persino da pensare che sua madre, in fondo, non avesse poi tutti i torti. Quando però cominciò ad immaginare tutto quello che avrebbero detto di lui in paese se avesse rinunciato, disse fra sé: «Vada come deve andare, indietro non si torna!».

La principessa, dopo aver giocato e chiacchierato col suo seguito, andò a sedersi di nuovo sullo scranno ed anche il primo ministro, i maggiorenti, il giudice e le guardie, ripresero il loro posto. Chiesero se non c’era più nessuno ed allora si fece avanti un giovane piuttosto timido, un principe dei paraggi che, davanti alla principessa, un po’ per paura, un po’ per soggezione, non riusciva in pratica a spiaccicar parola. Bene o male riuscì comunque ad enunciare i suoi indovinelli. Purtroppo la principessa, con una faccia da putéj machê i pignul in veta[10], diede sempre la risposta giusta.

«Al ceppo!» disse deciso la guardia, ma si dovette constatare che il boia se n’era andato a casa.

«Portatelo in prigione» disse allora il barigello, «e domattina questo sarà il primo lavoro del boia. C’è più nessuno qui che voglia fare le domande alla principessa?»

«Io!» gridò Mingon.

«Fatti avanti!», qualcuno gridò dal palco, e lui avanzò con passo sicuro e faccia dura. Quando fu dinnanzi alla principessa, s’inchinò, e nel far questo il berretto di lana gli cadde per terra. Lui lo raccolse, ma una guardia gli disse con sarcasmo: «Raccoglilo pure, stanotte ti servirà perché il boia viene solo domattina».

«Questo lo vedremo» disse Mingon senza darsi troppo pensiero.

La principessa cominciò a squadrarlo da capo a piedi, gli chiese da dove veniva, quanti anni aveva, cosa faceva. Lui rispose sempre sicuro, guardandola in viso e senza abbassare gli occhi.

«E’ un peccato» disse la principessa alle amiche, «così un bel ragazzone...». Un po’ rammaricata, si rivolse a Mingon dicendogli: «Hai proprio deciso di tentare anche tu? Ci hai pensato bene?».

«Ho percorso tutta questa strada apposta e ho avuto tutto il tempo per pensarci».

«Sta bene», disse lei, «comincia pure a fare le tue domande».

«Chi mi amava mi tradì, can fedel per me morì», disse Mingon.

La principessa abbassò gli occhi di colpo, cominciò a pensarci, senza venire a capo della questione che pareva senza senso logico. Chiese di passare alla successiva e il giovane continuò: «A j ò vest e’ murbi che int e’ dur furéva »

«Non ha mica senso, questa domanda! Come farà mai il morbido a forare il duro?».

«Ce l’ha, ce l’ha, il senso» disse con sicurezza Mingon.

«Meglio per te, perché se sei venuto qua a raccontare sciocchezze senza fondamento, prima di farti tagliare la testa ti farò torturare!» Poi pensò ancora un po’ e disse: «Dimmi il terzo indovinello».

Allora Mingon le disse: « S'u n’éra i du, i tri i-n paséva».

Qui cominciò a destreggiarsi nei ragionamenti: «Tre e due; in tre si dovrebbe avere più potere che in due...», ma malĕpa e arvôlta[11], non fu capace di venirne a capo. «La quarta!» disse con impazienza.

« E' môrt che sët viv purtéva

«Ma come» gridò lei, «può un morto trasportare sette vivi? Dimmi l’ultimo…»

«Tiro a chi vedo e ammazzo chi non vedo».

«Impossibile» disse la principessa, «Lasciatemi pensare ancora. C’è più di un’ora prima che scenda il sole: fino ad allora voglio pensarci». Si fece dare diversi libri dalla servitù, li guardò, li sfogliò, pareva che avesse il fuoco addosso, ma non riuscì a venire a capo a nessuno degli indovinelli, sicché quando il sole fu calato del tutto, lei era sèmpar da che pér e da che mél, ossia al punto di partenza[12].

Allora chiamò Mingon e gli disse: «Adesso voglio sentirle da te le spiegazioni e, se non ne sarò persuasa, prima di farti tagliare la testa, ti farò scorticare vivo. Sentiamo pure…».

«Altezza reale» disse Mingon, «Chi mi amava mi tradì, can fedel per me morì … è la sorte del mio cane, avvelenato dalla piada scellerata di mia madre; morbido che il duro forava è una goccia d’acqua che da anni e anni batte su un sasso allo stesso punto, fino a bucarlo; se non era per i due, i tre non passavano: indica che eravamo in tre fermi ad un traghetto su un fiume, ma il traghettatore ne trasportava da cinque in su e, fino all’arrivo degli altri due, i tre rimasero sulla riva ad aspettare».

La principessa scosse il capo e poi disse: «Sentiamo l’altra, il morto che sette vivi trasportava».

«Con la fiumana veniva un asino morto con sette cornacchie posate sopra che se lo stavano divorando». La principessa si buttò una mano sul viso e disse: «Questa mi pareva la più strampalata, e invece è chiara come il sole!», poi, ascoltata anche la spiegazione dell’ultimo bizzarro indovinello, si rivolse al giovane e gli disse: «Buon per te, Mingon: hai vinto. Vieni a palazzo».

La gente si mise subito a battergli le mani, tutti volevano toccarlo e complimentarsi, ma lui ormai era tanto confuso da faticare a muoversi.

Preoccupati, il primo ministro e gli uomini più importanti del governo si recarono dal re e gli raccontarono di come la figlia si fosse fatta incastrare da un bifolco senza garbo né maniera, e si raccomandarono di far subito qualcosa per rimediare allo scandalo imprevisto. Allora si fece avanti il giudice dicendo: «Bifolco o no, ha vinto lui, il bando parla chiaro. Quindi al massimo si potrà sottoporlo ad un’altra prova, dopo di che, e se non gli andrà bene, gli metterete qualcosa in mano e lo manderete a casa, diversamente, con tutta la gente che lo ha visto, ci sarebbe troppo scalpore».

«Che è proprio ciò che non voglio» disse il re. «Cerchiamo una soluzione dignitosa in fretta…».

Il ministro, un vero volpone, disse: «Perché non facciamo uscire il principe di prigione, poi diciamo a Mingon che c’è un’altra prova da fare per entrambi; che ne dite voialtri?».

«Quale prova?» chiese il giudice.

«Stabiliamo che il principe e Mingon andranno a letto con la principessa, solo per dormire s’intende, poi domattina all’alba andremo in camera e vedremo verso chi essa avrà girata la testa. Quello sarà il suo sposo. Ovviamente, ci raccomanderemo con lei affinché stia sempre girata dalla parte del principe, così risolveremo le cose. A Mingon, fatta colazione, daremo qualche soldo e un cavallo, vedrete che lui se n’andrà zitto zitto, non gli parrà vero...».

«Va bene», disse il giudice, «ma voglio dei patti precisi, perché a me questi pastrocchi piacciono poco. Le regole sono queste: devono andare a letto assieme, ma perché la competizione sia equa, quello che fa uno, deve farlo assolutamente anche l’altro».

Giunto a palazzo, Mingon fu informato dell’ennesima prova e gli furono spiegate le ferree regole. «Ho capito» disse lui. «Fra quanto tempo devo esser qui per andare a letto?»

«Fra un paio d’ore» gli fu detto.

«Fra due ore sarò qui; adesso vado a farmi un giretto per la città».

Quando fu per strada, nonostante tutti gli facessero festa, lui si guardò attorno, fino a che non vide una bottega, di quelle con ogni ben di Dio. S’infilò dentro, fu subito riconosciuto e complimentato. Lì si guardò in giro, si fece dare dapprima una fiasca di rosolio, poi si fece tagliare una bella fetta dalla torta con le mandorle che aveva visto sul banco. Quando mostrò le monete avute dalla madre, non ci fu modo di pagare, per nessuna ragione. Ringraziò, allora, e disse: «A buon rendere!»

Tornò a palazzo, dove nel frattempo era giunto dalla prigione quel principe scampato alla morte soltanto perché il boia era andato a casa ad annaffiare l’orto ed a sfamare il maiale.

Il povero giovane era esangue, bianco come una pezza da bucato, faticava a capire quel che gli dicevano. Ad un certo punto il giudice, il ministro e gli altri dissero: «Ragazzi, avete capito le regole del gioco. Adesso andate a letto entrambi, che la principessa vi aspetta».

Una volta che tutti furono sotto le coperte, con la principessa al centro, i camerieri spensero i candelieri e rimase acceso il solo lumino sopra il canterano. La principessa pensò: «Devo dar retta stavolta: al ministro, a mio padre, a mia madre. Mi girerò verso il principe, che non è un gran che, ma che è pur sempre un principe». Chiuse così gli occhi col viso girato proprio verso di lui.

In piena notte Mingon allungò un braccio, destò il principe e gli disse: «A me caro amico scappa da orinare. Poiché siamo obbligati a fare la stessa cosa, devi farlo anche tu!».

«A dire la verità, scappa proprio anche a me», e così dicendo ognuno dei due inondò il proprio bucalen[13], ma Mingon, ovviamente, lo fece col rosolio, mentre il principe, poveretto, che si sentiva un fiume in piena, partì in tromba e, mugolando da par suo, ne fece un mezzo orinale.

«Ehi, amico» disse a quel punto Mingon, «io, già che ci sono, faccio anche il resto: datti ben da fare anche tu!»

Al principe non parve vero. Con l’imminenza del taglio della testa, egli aveva l’intestino talmente smosso da aver già da tempo macchiato le braghe e fin lì aveva compiuto veri e propri sforzi per trattenersi. Si girò sopra il bucalen e si svuotò di colpo, tanto da farsi saltare gli spruzzi fin sulla schiena. Mingon, invece, mise rumorosamente a bagno la fetta di torta nel rosolio, poi se ne tornò a letto. Il principe, che doveva ripetere ogni mossa dell’avversario, si pulì alla bell'e meglio nella coperta e si rimise sotto le lenzuola.

Passata la mezzanotte da un po’, Mingon chiamò di nuovo il principe.

«Che cosa vuoi stavolta?»

«Voglio…, che mi è venuta fame.»

«Fatti portare qualcosa dai camerieri» disse il principe.

«Macchè camerieri, macchè qualcosa: adesso io mangio direttamente dal bucalen. »

«Stai scherzando?» disse il principe.

«No, no… Noi in campagna siamo costretti a farlo spesso. Sarà meglio che mangi dall’orinale anche tu! Hai sentito le regole del gioco: ognuno deve fare ciò che fa l’altro per salvare la testa...».

A quel punto il principe, poveraccio, alzò l’orinale da terra, e sentendo Mingon che s’abbuffava come un porcello, si disse: «Come potrei fare adesso…» Seppure di mala voglia, si mise a biascicare qualcosa anche lui.

«Non bevi?» gli disse Mingon, che s’era attaccato al bucalen.

Il principe dovette farsi coraggio: cominciò a sorseggiare seppure senza inghiottire nulla, ma così facendo si lordò un po’ ovunque, prendendo a puzzare come un navaz[14].

La principessa, che, dormendo come un ghiro, non s’era accorta di tutte queste manovre, a una cert’ora prima dell’alba fu risvegliata da odori non propriamente piacevoli.

«Ma cos’è questa puzza di latrina?» disse subito. «Accidenti, sarà un principe, ma gli puzza l’alito in modo insopportabile, ma chi potrà starci mai vicino ad uno del genere? Sarà quel che sarà, ma è meglio che mi prenda Mingon! Se u nn’in sa ne d’cop e ne d’ spêd[15], gli insegnerò io; e poi è un bel ragazzone, e anche pieno di salute». Si girò decisamente allora verso Mingon, sentì il bell’odore di rosolio e gli si accostò ancora di più. All’alba, quando giunsero il re, la regina, il primo ministro, il giudice e tutto il resto della corte, la principessa aveva quasi abbracciato Mingon.

«Qui non c’è più niente da dire: Mingon ha vinto anche stavolta» affermò il giudice, «e adesso basta».

Nessuno fiatò: il re e la regina dissero rivolti alla figlia: «Basta che sia contenta tu».

Il principe si vestì alla chetichella, uscì dal palazzo e, quando trovò il suo cavallo pronto, non gli parve vero di poter scappare come una lepre, contento di aver salvato la pelle.

Mingon e la principessa, manco a dirlo, si sposarono con una gran festa. Gli sposi, poi, godettero sempre di buona salute, ebbero bravi bambini e finirono la loro vita in vecchiaia, benvoluti da tutti.



[1] La favola, con versioni parzialmente coincidenti con questo testo, è pubblicata in: E.Casali, Fiabe romagnole ed emiliane, Milano, Mondadori, 1986, pp.81-85 (col titolo di Baiton), A.Vandini, Gente semplice, quand che int la porta u j éra la ramètta, Faenza, Edit, 1994, pp. 95-99, E.Baldini-A.Foschi, Fiabe di Romagna, volume primo, Ravenna, Longo, 1993, pp. 331 ss. (repertorio narrativo di Antonio Zaccaria), E.Baldini-A.Foschi, Fiabe di Romagna, volume quarto, Ravenna, Longo, 1996, pp. 225 ss. (repertorio narrativo di Giovanni Bassi, Paciaraza). Questa è la ricostruzione sotto forma di racconto della narrazione udita da Cömo.

[2] Ragazzone intorno ai vent’anni.

[3] Me lo sceglierò assolutamente io.

[4] Ceppo di quercia, ma qui sta per stirpe umile.

[5] Fagotto infilato nel bastone.

[6] Schiantarsi le braccia per pochi quattrini.

[7] Ho visto il tenero forare il duro / se non eravamo in tre in due non si passava / Il morto trasporta il vivo...

[8] Con un colpo secco di mannaia.

[9] Le ginocchia cominciarono a sbattere assieme come nacchere.

[10] Sulla quale si sarebbero potuti ammaccare i pinoli. Sta per: «con quella faccia tosta».

[11] Gira e rigira.

[12] L’espressione dialettale significa letteralmente: « da quel pero e da quel melo».

[13] Orinale.

[14] E' il carro-cisterna che serviva per il trasporto dei liquami di deiezione.

[15] Non ne sa né di coppe, né di spade. L’espressione è riferita ai segni delle carte e significa: «anche se non sa niente di niente».

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