lunedì 5 novembre 2007

Risparmiatori defraudati. Il caso Giuffrè…

di Beniamino Carlotti e Agide Vandini


In tempi di finanza spericolata, finanziarie piramidali, furbetti del quartierino, imprenditori e manager più o meno unti dal signore, dal partito o da qualsivoglia altra associazione o congregazione, si vuole qui ricordare, per le molte analogie col caso Coop-Costruttori che ci riguarda da vicino, una vicenda prettamente emiliano-romagnola di mezzo secolo fa e che andò sotto il nome di “Caso Giuffrè”.

Fu uno scandalo all’epoca provocato da un’attività bancaria truffaldina e surrettizia, definita anche “Anonima Banchieri”. Molti ancora oggi ne sottolineano, con qualche inevitabile sarcasmo, gli aspetti grotteschi per non dire leggendari:

«Il p curioso e anche singolare “miracula” fu quello dove Dio comparve come banchiere nelle vesti di un certo Giovanni Battista Giuffrè. La provvidenza divina moltiplicava i biglietti di banca nelle sagrestie, che ovviamente Giuffrè prima raccoglieva dai parrocchiani con a fianco i curati che lo trattavano come un santo. Creò scandalo. Coinvolse banche, vescovi, Stato, due ministri delle Finanze (Preti e Andreotti). I giornali pubblicavano perfino le foto quando avveniva la “moltiplicazione delle banconote” con Giuffrè attorniato da parroci in estasi. Poi la provvidenza emigrò verso altri banchieri (loro i miracoli normalmente li chiamano “operazione finanziaria di rientro”, cioè “paga o ti faccio fallire”), e lui, bello paffuto, col sorriso mefistofelico, non riuscì nemmeno a restituire le somme ricevute. La provvidenza aveva incontrato il diavolo - disse - e si era nel frattempo mangiato ogni cosa. A piangere - questa volta - furono decine di migliaia di risparmiatori, per la disperazione di aver perso tutto»[1].

Vediamo un po’ meglio come andò la storia:

Il caso Giuffrè fu uno scandalo finanziario scoppiato in italia nel 1958, sotto il secondo governo Fanfani. Un ex bancario, Gianbattista Giuffrè, accreditato presso la curia vescovile locale, iniziò a raccogliere risparmi presso le famiglie contadine e piccolo borghesi della Romagna, promettendo tassi di interesse altissimi, che arrivavano anche al 100%.

Presentando come garanzia di affidabilità le sue amicizie con gli ambienti religiosi (per questo fu poi soprannominato "il banchiere di Dio"), e contando su alcune connivenze negli ambienti politici e nel sistema bancario, Giuffrè riuscì inizialmente a rastrellare ingenti somme di denaro.

In una prima fase Giuffrè rimborsava effettivamente gli altissimi tassi di interesse, contribuendo in tal modo a pubblicizzare e rendere molto appetibile la sua raccolta, che così si estese rapidamente anche in altre province.

In realtà Giuffrè non investiva il denaro raccolto in attività finanziarie, ma si limitava a rimborsare gli alti tassi di interesse semplicemente utilizzando il denaro raccolto successivamente presso altri risparmiatori, secondo il classico meccanismo della "catena di S.Antonio".

Quando un certo numero di risparmiatori, sospettando la truffa, iniziò a chiedere il rimborso, Giuffrè non fu in grado di rimborsarli, gli ultimi entrati nella raccolta persero il loro denaro e la truffa fu scoperta.

Si trattò di un caso che suscitò notevole clamore all'epoca, che scosse l'opinione pubblica, e provocò anche un terremoto politico. Nel processo che ne seguì, infatti, furono chiamati in causa il ministro delle finanze Luigi Preti e il suo predecessore Giulio Andreotti, si istituì una commissione parlamentare di inchiesta, e in definitiva il clamore del caso Giuffrè contribuì comunque a far introdurre in Italia, negli anni seguenti, una più severa normativa sulla raccolta di risparmio[2].

Era avvenuto, dunque, che nel 1949 il Giuffrè, ex cassiere di un Istituto Bancario Imolese, si era trasformato in consulente finanziario ed amministratore di istituti ecclesiastici romagnoli e bolognesi, in particolare ad Imola, Forlì, Cesena e Ravenna. In quel ruolo, egli orientò prevalentemente la sua attività nella “raccolta di denaro”, raccolta che perseguì tramite la corresponsione di interessi stratosferici. Raccolse in alcuni anni enormi capitali, sia da Istituti che da privati cittadini. Si racconta di gente che, negli anni in cui il denaro si teneva ancora nel materasso, alle otto del mattino si recava con sacchi di denaro contante all’ufficio di Giuffrè per consegnarli personalmente, nella speranza di spuntare cinque o sei punti in più di interesse.

Il sistema a mo’ di catena di S.Antonio naturalmente non potè durare all’infinito. S’inceppò col venir meno della cieca fiducia nei suoi confronti ed in conseguenza delle prime indagini giudiziarie. Per circa otto anni Giuffrè operò comunque quasi indisturbato, mentre le inchieste che si aprirono sulle sue attività non approdarono a nulla.

Lo scandalo vero e proprio scoppiò a partire dal settembre del ‘57, quando s’infittirono le indagini della Guardia di Finanza di Forlì e Ravenna sulle sue operazioni e vi si constatò come “l’insufficienza della legislazione non consentiva forme di intervento della pubblica autorità per prevenire e reprimere fenomeni abnormi che possano recare nocumento direttamente o di riflesso, alle normali attività delle aziende di credito o turbare la fede pubblica”.

Del crac, che giunse a privare dei loro averi centinaia di risparmiatori e per il quale Giuffrè se la cavò con poco o nulla, si è riparlato di recente a proposito del rifiuto di padre Pio di usare le offerte ricevute a monte Rotondo per colmare il buco nero causato nelle finanze dell’Ordine dei cappuccini dal «banchiere di Dio». La cosa, all’epoca, lo aveva messo in notevole contrasto con Papa Giovanni XXIII[3].

Sul caso Giuffrè espresse un commento significativo Luigi Einaudi (questo sì davvero un Economista con E maiuscola…), riportato dal Carlino il 29 Gennaio 1959: “fa d’uopo ricordare, che non esiste nessuna maniera, né semplice né misteriosa di fare denaro, e se eccezionalmente dovesse accadere, a colui il quale ci riesce, non gli verrebbe mai in mente di elargire parte dei guadagni sotto forma di interessi stravaganti ad altri”.

Parole sagge e, a ben vedere, ancora di estrema attualità, parole purtroppo ancora inascoltate da risparmiatori ancora poco tutelati, spesso sprovveduti e fin troppo facili prede di imbonitori e finanzieri spericolati.

La storia ci dice chiaramente che fede (non solo religiosa ovviamente…) e finanza non vanno quasi mai d’accordo e che la memoria dei fatti accaduti nel passato dovrebbe meglio consigliarci nelle nostre valutazioni. Soprattutto, essa dovrebbe aiutarci nel diffidare in futuro di qualunque pifferaio bussi alla porta e di chiunque possa far scempio, ancora una volta ed in un colpo solo, degli ideali più nobili e della nostra buona fede (Agide e Benny).

Nella foto: Una scritta amara ed allo stesso tempo sarcastica, comparsa a Menate di Longastrino nel luglio 2005. Da essa appare tutta la disillusione del territorio per il crac della Coop Costruttori, depositaria della quasi totalità dei risparmi della popolazione locale e guidata dal cosiddetto «patron»: Giovanni Donigaglia.

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