martedì 18 dicembre 2007

E’ zöch d’Nadêl


di Beniamino Carlotti

Anche a Filo, come in tutta la Romagna, un tempo (quando cioè l’abete natalizio era ancora lontano a venire), alla vigilia della Festa nelle nostre case era consuetudine bruciare un ceppo d'olmo (un zöch d’ójum), raccolto durante l’estate ed essiccato con cura, quale buon auspicio per l’anno nuovo.
Era una tradizione secolare che, con genuina sobrietà, univa la famiglia davanti al focolare nel rituale evento, e che aveva lo scopo di esorcizzare carestie e conseguenti epidemie che ricorrentemente mietevano uomini e bestiame.
Poco prima della mezzanotte, dopo aver recitato l’Ave Maria ed il Pater Noster, si poneva sul fuoco il ceppo che doveva riscaldare il nascituro Bambin Gesù e, poi, tutta la famiglia in festosa allegria intonava (in dialetto) la filastrocca: «Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane , ogni grazia di Dio entri in questa casa. Le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondi il grano e la farina e si riempia la conca di vino».
Il ceppo doveva bruciare sino all’alba, ma non consumarsi del tutto, i suoi resti in parte si sotterravano in campagna per preservare le piante dalle intemperie, ed in parte si conservavano per proteggere i raccolti dal flagello della grandine (la timpësta). Gli avanzi meno carbonizzati si riaccendevano al momento della nascita dei bachi da seta, ossia di cavalir chi nascéva par San Zôrz, per farli crescere forti ed immuni da malattie.
La festa si completava con un piccolo assaggio delle tradizioni culinarie locali: uscivano dalle “matre” i succulenti caplëz cun la saba, al mistuchin di farina di castagne e si stappava una bottiglia di quello buono. Per la gioia dei più piccoli appariva talvolta pure un arancio o un mandarino (un portugal).
Gli uomini giocavano a carte perchè portava bene e l’Azdór frugava con il ferro (e’ zampen) nella brace, creando spruzzi di faville da cui si traevano presagi. Davanti al focolare si ponevano anche alcune sedie vuote, addobbate con scialli e coperte, per ospitare la Sacra Famiglia che nella notte santa avrebbe visitato tutte le case.
L’amico Silvano Tebaldi, uno degli ultimi superstiti di una antica e numerosa famiglia contadina (i Mlarina), racconta che la sua nonna, per consuetudine e tradizione culturale, al minacciare di un temporale, in particolare con nubi provenienti da Nord-Ovest (quand che e’ temp e gnéva da e’ canton d’Verona), si affrettava a praticare l’esorcismo di rito. Provvedeva cioè a sgnêr e’ temp e il rituale imponeva un rigoroso rispetto della tradizionale cerimonia: al centro dell’aia si incrociava il ferro del camino (e’ zampen), la paletta (la paleta) per raccogliere cenere e braci, vi si poneva sopra parte dei resti de’ zöch, la pêlma banadeta, cioè la palma d’ulivo ricevuta in chiesa la domenica delle Palme, il tutto scandendo un preciso rituale fatto di preghiere ed esortazioni a Santi e Protettori. Essi dovevano proteggere le messi (l’arcôlt) dal flagello della grandine; di tutto quel rituale oggi, purtroppo, si è persa conoscenza e memoria.
Religiosità e superstizione, dunque. Era un misto di cristianesimo e paganesimo, ciò di cui era permeata la civiltà e la cultura contadina, quella che per secoli ha garantito continuità nella tradizione e che negli ultimi decenni è stata così sconvolta da perdersi quasi ogni traccia e memoria.
Riscopriamo allora volentieri le nostre tradizioni così frettolosamente abbandonate nel nome di un modernismo estraneo alla nostra cultura, e riproponiamo almeno una volta l’anno la festa della famiglia, riunita nell’intima gioia dello stare insieme, lontano dai clamori e dal fragore dei quotidiani riti consumistici che ci vengono imposti dalla moderna civiltà industriale.

Sopra: E' zöch d'Nadel di Giuliano Giuliani.

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