domenica 30 marzo 2008

Una foto, una storia (2)

La vecchia marmora delle valli

di Agide Vandini

Nelle vecchie mappe delle nostre valli del Mezzano c’era un punto che segnava un confine, o forse sarebbe meglio dire una frontiera, al di là della quale iniziava la competenza delle guardie comacchiesi, una presenza oppressiva che vietava ogni tipo di raccolta, dal sale alle anguille. Era il «Termine detto la Marmora» ed era contrassegnato all’interno del bacino vallivo da un enorme pietra marmorea conficcata sul fondo della valle, parte della quale svettava al di fuori delle acque.

Vi si leggeva R.C.A, ovvero Reverenda Camera Apostolica ed una data: 1769, l’anno in cui l’istituzione pontificia aveva posto quella pietra invalicabile, alla fine di una lunga controversia coi proprietari del Molino di Filo (o Filvecchio), controversia che infiammò tribunali, estensori di carte bollate e non solo, se è vero che ad inizio ‘700 i comacchiesi giunsero persino a mandare gli austriaci ad incendiare il Molino del Bentivoglio ed a portar loro in trionfo le macine tanto osteggiate. Fu una lite, quella degli eredi Bentivoglio coi comacchiesi e con la Santa sede che durò secoli, intorno al diritto di scarico in valle delle acque dolci e dei diritti di pesca nel canale del Molino[1].

Dopo il prosciugamento della valle del Mezzano a metà degli anni ’60 la «marmora» finì sotto il pagliaio di un contadino e da lì andò a prelevarla, con tutta la sua buona volontà e l’amore per le cose di un tempo, il nostro Vanni Geminiani che ora la tiene amorevolmente davanti ad una delle porte di casa.

Adesso è davanti agli occhi di tutto il paese, la vecchia «marmora», anche se pochi ne conoscono il significato e la funzione tanto importante che rivestì per secoli. Molti la scambiano per una strana panchina piazzata lì per chi voglia godersi l’ombra del pomeriggio in estate, oppure per far da comodo appoggio per le bici.

Quando, una ventina d’anni fa, la gru scaricò con difficoltà questa pietra di sei quintali e mezzo ai piedi della discesa di Via G.Mezzoli, Vanni ebbe però la sorpresa di udire un urlo ed un’invocazione inaspettata. «La mia marmora, è la mia marmora…»

Era la vecchia Nurata, che allora abitava nell’adiacente Cà Longa, che non aveva saputo trattenersi; lei che da bambina aveva vissuto ai margini della valle. Si era emozionata alla vista, dopo tanti anni, della pietra verso la quale si era diretta tante volte in barca col padre, o con altri ragazzi come lei, anche soltanto per raggiungerla quasi per gioco, per toccarla come si fa con le grandi conquiste e tornare a riva.


[1] Chi volesse documentarsi o approfondire tutta la storia della controversia e comprendere meglio i motivi di contrasto fra gli abitanti dell’antica riviera di Filo e gli interessi comacchiesi può consultare A.Vandini, Filo la nostra terra, Faenza Edit, 2004 ed in particolare i capitoli 6 (I contrasti con la vallicoltura comacchiese) e 17 (I molini di Filvecchio, dal Cinquecento ai giorni nostri)

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