venerdì 25 aprile 2008

Filo, 25 aprile 2008, il mio discorso celebrativo

di Agide Vandini

Sperando di far cosa gradita a quanti l’hanno apprezzato e ad altri che non hanno potuto ascoltarlo, inserisco qui, a disposizione di tutti, le mie parole introduttive della cerimonia, avvenuta stamattina, di presentazione del Monumento ai Caduti restaurato e della lapide ad Agida Cavalli.

Cittadini di Filo, gentili intervenuti,

ho l’onore di aprire questa cerimonia, una celebrazione che mi tocca profondamente, sia come segretario ANPI che come nipote di Agida Cavalli, di cui porto il nome, una nonna che non ho mai potuto conoscere.

Voglio innanzi tutto ringraziare i due Consigli di Partecipazione filesi e l’Amministrazione Comunale di Argenta che ha accolto le istanze dei nostri cittadini, lo scultore Andrea Bonesi, l’Architetto Stefano Villani, per la sensibilità e l’accuratezza riservata a questo monumento ai Caduti, un’opera d’arte che abbisognava da tempo di rimessa a nuovo. Un ringraziamento molto sentito lo porgo alla Comunità filese per aver voluto dedicare una pregevole stele ad Agida Cavalli, nelle adiacenze del luogo del suo sacrificio, un nome ed un simbolo che, non solo a Filo, evoca le sofferenze di tante nostre donne nei lunghi mesi della lotta di Liberazione, un lavoro quasi sempre oscuro, eppure a rischio della vita, un contributo, un sostegno ed uno spirito di sacrificio, mai abbastanza ricordati nel dopoguerra. Ringrazio infine tutti i presenti e Renata Talassi, che ha sempre avuto nel cuore questo paese, per aver accettato di intervenire oggi.








Il maestro

Angelo Biancini

(1911-1988)

Il monumento ai Caduti di Filo che possiamo riammirare nell’originario splendore, fu creato nel lontano 1955 su modello dell’architetto Parolini. Nel suo contesto furono inserite due preziose sculture su marmo del maestro Angelo Biancini, grande romagnolo, una delle figure più autorevoli della scultura italiana del Novecento, Professore all’Istituto d’Arte di Faenza, artista celebrato ed autore di opere commemorative importanti, come il Monumento alla Resistenza di Alfonsine. Sono di Biancini, in territorio argentano anche il monumento a Don Minzoni ed il busto a Maria Margotti.

Su alcuni simbolismi e significati del nostro monumento è bene soffermarsi brevemente, a cominciare dalle sculture che impersonano il «Caduto» e la «Madre» in lacrime, figure che appartengono, profondamente, al «tempo» ed al «luogo», quasi quanto la tifa (pavira), ora felicemente inserita nel contesto.

Come ebbe a scrivere Libero Ricci Maccarini - dirigente cooperativo, uno dei fautori del monumento costruito dai filesi e donato al Comune - l’Eroe di Biancini, riverso, senza divisa e con la «canottiera», «sa di ribollir di stoppie e di trebbiature patite dal sorgere del sole al cadere del giorno».

Esso «ricorda il vociare aspro del boaro ai buoi, dietro l’aratro», come l’ossuta corporatura rivela «l’uso al largo gesto dello sfalcio dei campi» «nell’assunto incombente di dare il pane ai suoi cari». «In Lui - rifletteva Libero- noi ci riconosciamo!». E nondimeno nella figura materna che ne piange la perdita. «Contrita, in quel viluppo di pieghe che, il grembiule stretto con la cordella ai fianchi, raccoglie nella mestizia della veste nera, veste che da sempre segna la costante del lutto e il sacrificio dell’esistenza vissuta solo per la famiglia. Il disperato gesto delle mani portate al volto, cerca di nascondere un pianto che vuole invocare la sublimazione della penitenza e, insieme, compassione per lei, costretta a vivere, quando il senso dell’esistenza si è dissolto con la scomparsa del figlio: quel gesto, sì, noi tutti ben lo comprendiamo!»

Le croci sul muro nudo di mattoni insabbiati e di color rosso dimesso, qual’era quello delle nostre case distrutte - sono sempre parole di Libero -, vogliono rappresentare i tanti caduti «senza indicarne il nome», mentre il marmo bugnato riprende, anonimamente, l’asprezza dei monti d’ogni paese percorso controvoglia dal soldato mandato alla guerra. Infine la pietra arenaria del muraglione di destra e dei gradoni, ricordano le vicine colline amiche, che colsero l’ultimo momento di tre nostri compagni - tre partigiani filesi - ora non più con noi a comporre le piccole e grandi cose nelle quali avevamo creduto insieme».

Libero sottolineò, infine, come il Monumento fosse concepito per ricordare tutti i morti: «i caduti da ricordare erano veramente tanti e nessuno poteva o doveva essere dimenticato. Né quelli della prima guerra mondiale […]; né gli antifascisti percossi a morte, né i primi sindacalisti bastonati e perseguitati fino alla estinzione fisica; né i caduti disseminati in Africa e sui tanti fronti dell’ultima Guerra […]; né i caduti della Resistenza; né infine quanti furono travolti nelle proprie case»

Tanti caduti, eroi «senza nome», dunque, caduti filesi di tutte le guerre e del Secondo Risorgimento. Ricordiamo qualche cifra. Furono 23 i caduti filesi del ’15-’18 e ben 141 quelli del secondo conflitto mondiale: 92 caduti civili, 31 militari e 18 Martiri della Libertà, 18 stellette che onorano per sempre la nostra bandiera, e fra questi: sei partigiani, i dieci civili trucidati dai tedeschi l’8 settembre del ’44 (cinque alla Bastia e cinque nell’incrocio di Filo), Mario Babini (medaglia d’argento al valor militare) ed Agida Cavalli.

Agida, madre 53enne, bracciante, moglie di un umile calzolaio filese, fu colpita da una raffica mortale in pieno slancio d’amore e di disperazione materna. Voleva salvare ad ogni costo, da morte sicura, il figlio Guerriero, che dormiva ignaro con la moglie Elvira e la figlioletta Carla, in una stanza appena fuori dalla povera abitazione, oggi giardino Barabani, di lato alla piazza che, dal dopoguerra, porta il suo nome.

Guerriero, il figlio maggiore, era da anni la grande preoccupazione dell’Agida che, qualche mese prima aveva dovuto sopportare anche il distacco da Sereno, il più giovane dei suoi tre figli, deportato in Germania.

Giovane fabbro alla «Lodigiana», Guerriero già nel novembre del 1930, appena diciottenne, era stato uno degli antifascisti romagnoli arrestati dal regime, processato dal Tribunale Speciale Fascista di triste memoria con altri giovanissimi 21 filesi, e condannato a 18 mesi di carcere. Al 12mo mese aveva persino rifiutato di sottomettersi alla «Grazia Sovrana» preferendo, piuttosto, scontare la pena per intero. Tornato dalla guerra, dopo l’8 settembre del ’43, aveva riaperto la sua piccola bottega a Bando ed era entrato nelle fila partigiane.

Quella fredda e triste notte del 29 febbraio 1944, Guerriero, come il suo vecchio compagno di carcere Giovanni Matulli, fu purtroppo scelto, proprio per il suo passato di antifascista irriducibile, come vittima designata di una spedizione punitiva delle Brigate Nere, una «squadra della morte» composta da dodici «camicie nere», giunta a Filo dal ferrarese per «dare l’esempio», in un noto e famigerato paese di «rossi».

La povera Agida non poté vedere che un annuncio di morte, negli occhi che spuntarono dal buio sull’uscio di casa, occhi spiritati e assetati di sangue, che si agitavano al di sopra di brutali fazzoletti che coprivano le facce, e che chiedevano la consegna di suo figlio. Lei guadagnò tempo come poté, abbandonò ogni paura, corse disperata per la casa, per avvertire Guerriero, per dargli la possibilità di fuggire. Cadde tramortita sull’uscio posteriore, invocando suo figlio, colpita da una raffica spietata e mortale, dai colpi degli squadristi appostati dietro casa, da chi doveva essere, in quella terribile notte, il carnefice di Guerriero.

Agida Cavalli

Seppe soltanto nel letto di morte che il suo sacrificio non era stato vano. Guerriero e Gianël, caricati sulla camionetta degli squadristi, in fretta e furia, ancora in camicia da notte e senza sapere cosa fosse successo all’Agida, all’ultimo momento, già scaraventati per l’esecuzione sommaria nel fosso della Civettara (oltre Case Selvatiche), furono risparmiati, forse in un soprassalto di umanità, dopo che qualche scrupolo, un minimo di resipiscenza, riuscì evidentemente a toccare persino uomini imbestialiti come quelli, messi di fronte ad un sangue che gridava vergogna, al sangue di una madre, e di una madre tanto coraggiosa.

Tanti scrittori, anche famosi, hanno voluto ricordare il gesto dell’Agida. Antonio Meluschi, Dario Fo e Franca Rame, fra i tanti. Renata Viganò, la scrittrice de’ l’«Agnese va a morire», definì nel dopoguerra Agida Cavalli «madre della Resistenza» e proprio in suo nome aveva combattuto a Filo la sua formazione partigiana di pianura, una delle tre della 35° Brigata Garibaldi «Mario Babini», quella che poco più di un anno dopo la notte assassina, il 14 aprile del ’45, partecipò con le «forze «alleate» alla battaglia del «Molino», battaglia che portò la Libertà in questo piccolo paese ormai ridotto in macerie.

Come ho detto, non ho mai potuto conoscere la nonna Agida. Nacqui nel novembre del ’45 a Liberazione avvenuta e 17 mesi dopo la sua morte. Mio padre volle, in segno di riconoscenza, che portassi il suo nome, e sono sempre stato, per i filesi, e’ fiôl d’Gveriéro dl’Agida. Ho sentito tanto parlare di lei dai miei familiari, mi è stata raccontata più volte la sua storia triste, sempre però con grande dolore e mestizia, con senso profondo della mancanza, mai con ansia o istinto di «vendetta», una parola che, in casa, non ho mai udito pronunciare. Credo sia stata, in fondo, la lezione più bella che, come figlio e come nipote, io abbia ricevuto.

Come cittadino, ho sempre pensato che sia giusto e importante, perché il suo sacrificio non sia stato inutile, che del suo gesto d’amore, della sua figura di madre e di donna coraggiosa, sia conservata fedele memoria. Il suo nome, io credo, può ancora essere di insegnamento alle generazioni di oggi e a quelle che verranno, ricordando, anche a chi tenta talvolta di beffarsi della storia, quanto siano costate, anche qui fra noi, in fatto di sofferenze, di vite umane ed estremo sacrificio, le Parole e le Idee, di Libertà e Democrazia.

La stele ad Agida Cavalli

(cliccare sull'immagine per vederla ingrandita)














Il Monumento ai Caduti restaurato





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