mercoledì 29 ottobre 2008

Cinquant’anni fa una gita scolastica

Correva l’indimenticabile anno 1958

di Agide Vandini

A distanza, ormai, di mezzo secolo il ricordo dovrebbe essersi sbiadito. E invece no.

Ho in mente tantissime cose ed abbondanza di particolari di quell’anno e di quella gita scolastica. Chissà, certo è stato l’anno della mia prima volta a Venezia e quindi in una città celebre e lontana, e io, dal mio paesino di campagna, potevo giusto muovermi, allora, per una gita voluta e guidata dalla scuola. Indubbiamente, alcune cose singolari di quell’annata seppero colpire la mia mente di adolescente, cose che, col metro di oggi, apparirebbero di scarso significato, ma che, nel tempo, hanno fatto evidentemente da architrave alla stanzetta dei ricordi, rimasta ancora lì, fra i misteriosi recessi della memoria.

Ho ben presente l’immagine di quasi tutti i compagni di classe di quella splendida II° A, in un anno contraddistinto dallo studio dell’Iliade, un poema ed una storia così emozionante e ben presentata dal nostro Prof. Paternoster che, ognuno di noi, poco a poco, finì per identificarsi in un eroe di quel palpitante mondo omerico. Se non ci si calava nel ruolo da soli, comunque, faceva lo stesso: scelta prima o poi la fazione (o si stava coi greci, oppure coi troiani), ci pensava il resto della classe ad assegnare la parte, e senza appello. Fu così che il mio compagno di banco, l’argentano Fernando Buldrini, noto per la sua furbizia e sagacia, finì per diventare, per tutti, il prode laerziade Ulisse e io, di conseguenza, chi mai se non Diomede figlio di Tideo, suo compagno nell’assalto al campo dei troiani? Da quell’anno ci si prese a chiamare col nome omerico e, ancora oggi, di certi compagni (come Ettore), m’è rimasto in memoria appena quello.

Ercole Baldini, il treno di Forlì, con la maglia iridata

Fu poi, il ’58, anche l’anno delle Grandi Imprese di Baldini, l’Ercole leggendario romagnolo, vincitore del Giro d’Italia davanti a Gaul ed Anquetil e che poi conquistò in pochi mesi anche i titoli di Campione d’Italia e di Campione del Mondo. Il conterraneo e maestro Secondo Casadei gli dedicò Il treno di Forlì, una canzone gioiosa che piacque molto, diffusa spesso da Radio Capodistria all’ora di pranzo. Vi si cantava fra l’altro: … nel mille-novecento-cinquant’otto, il missile Baldini vola e va, i gran campion son tutti liquidati, la maglia rosa ha conquistato già, dai, dai ecc.

Affascinato dai Baldaza (Ercole Baldini da Villanova di Forlì), Pipaza (Giuseppe Minardi da Solarolo) e Gabanina (Arnaldo Pambianco da Bertinoro), e sempre in gara nelle lunghe pedalate giornaliere fra Filo ed Argenta (la rata d’San Làzar era diventata il nostro «Stelvio» e quella dei Nugaron il «Pordoi»…), sognavo notte e giorno una bicicletta nuova col manubrio sprint e, proprio in quell’anno, mio padre si superò: una sfolgorante Legnano verde oliva, tal quale la bici inforcata da Baldini, fu il mio regalo per la promozione. Quando pervenne ancora imballata nella baracca da meccanico del compianto e caro Giget (Luigi Zanotti) al Molino di Filo, l'oggetto dei miei sogni aveva, incastrata nei raggi della ruota anteriore, una foto del grande Baldini con la maglia iridata appena conquistata. E, dunque, come potrei scordare il 58?

Avevo del resto poco più di dodici anni quel 23 maggio (la data precisa l’ho trovata dietro un paio di fotografie d'epoca) quando, con la Scuola Media «Gustavo Bianchi» di Argenta, ci si avviò in pullman verso la città dei Dogi, per una gita a lungo attesa, accuratamente organizzata e, per fortuna, alla portata delle tasche di una famiglia modestissima come la mia.

Non c’erano le odierne autostrade a quel tempo. Si seguiva il percorso delle strade statali maggiori, senza autogrill, aria condizionata, musica in cuffia, TV a bordo ecc. Le medie orarie delle corriere erano basse, pochi i servizi e il viaggio di andata e ritorno prevedibilmente lungo. A mettere le cose subito su un piano meno «scolastico» ci pensò l’insegnante che più metteva in soggezione tutti noi: il prof. Alfonso Paternoster. Prese il microfono oltre Pontelagoscuro ed annunciò, con tono apparentemente serio, un avvenimento epocale: L’Adige (anagramma del mio nome, chiaramente) stava attraversando il Po…

L’atmosfera divenne ben presto assai familiare e confidenziale, ben diversa da quella austera e grave dell’aula argentana. Il tempo passò in fretta, anzi, il viaggio approfondì molte amicizie e fu per tutti un divertimento inaspettato fra canti, scherzi, giochi di gruppo ecc.

Giuseppa (Canzone burlesca di Mario Masperi)

SOL7 DO LA-

Giu - seppa dal dì che, ti ho visto sento in me, più forte

RE-7 SOL7

battere il mio cuore.

DO LA-

Lo so sei brutta ma, però tu porti in dote

RE-7 SOL7

circa sei milioni.

FA

Oh mia Giuseppa, Giuseppa quanto t’amo

RE- SOL -

Senza di te non posso proprio star!

LA7

Io spenderò i milioni e tu guarderai lassù

RE-

Oh mia Giuseppa, Giuseppa cicciona d’or,

(finire sfumando)

Giuseppa cicciona d’or, cicciona d’or, cicciona d’or, ecc…

RE-

Giu - se - ppa,( zum zum), Giuseppa quanto t’amo,

RE-

Senza di te, ecc. ...

Il ponte sul fiume Kwai. L’emozionante scena del film coi prigionieri britannici che marciano sul ponte da loro stessi costruito, e destinato, a loro insaputa, ad esplodere.

Lido di Venezia, 23 maggio 1958. Alcuni compagni di scuola durante la colazione al sacco. Da sinistra: Fiorini, Morelli Serenella, Gessi Maurizio, Calzolari Anna, Grazia Dal Pozzo.

Fra gli insegnanti in gita, si distinse per allegria il professore di disegno Mario Masperi, esimio e prestigioso pittore sanbiagese. Di solito piuttosto sulle sue, ci propose scherzosamente una sua originale composizione canora, una canzone burlesca dal titolo «Giuseppa cicciona d’or» di cui imparammo ben presto l’aria, un motivo, peraltro, che non ho mai dimenticato, e di cui pubblico volentieri il testo, con accordi (approssimativi) per chitarra. Fu un successo strepitoso.

Ma in quel ’58 ci fu anche il lancio de’ «Il ponte sul fiume Kwai», il filmone di guerra con William Holden ed Alec Guinnes. Pochi di noi quel giorno l’avevano già visto, ma fra questi il mio compagno Ulisse (o Fernando, che dir si voglia), perdutamente invaghito della marcia popolare britannica Colonel Bogey[1] al punto da soffiarmela all’orecchio per quasi tutto il viaggio di andata.

Un po’ alla volta presi a fischiarla con gusto anch’io. Fatto sta che, una volta scesi a Piazzale Roma e diretti a piedi verso Piazza San Marco, issati sulle spalle gli zaini con la colazione prevista al sacco, Ulisse e Diomede si apprestarono, come altrettanti pifferai di Hamelin, ad una marcia cadenzata e fischiettata, busto eretto e portamento fiero, marcia che parve a tutti irresistibile.

Con l’orgoglio degli sbrindellati prigionieri britannici sopra il fiume Kwai, ci trascinammo allora per Venezia il discreto gruppetto deciso ad attraversare la laguna a piedi. Ulisse poi, perfettamente calato nella parte, si mise anche un lungo bastoncino sotto il braccio e con ciò fu subito chiaro chi fosse il maestro della banda.

Visitata piazza san Marco, a ora di pranzo ci si portò al Lido di Venezia, ove, in un ampio spazio verde, si consumò la colazione al sacco e si fece qualche foto prima di rientrare verso Piazzale Roma. Ovviamente, per due guerrieri abituati alle scorribande sul campo dei troiani, anche al ritorno non ci fu scelta. Passo di marcia e atteggiamento marziale non appena giunti lungo Canal Grande, fra la viva curiosità dei turisti, per i piccoli e impettiti zampognari di ignota origine, e per le note trascinanti della loro bella marcetta.

Non ricordo quante energie fossero rimaste in saccoccia verso sera, ricordo però i finestrini calati del pullman, i tanti capi sporgenti, l’aria tiepida del tramonto e tanta tristezza all’arrivo ad Argenta, alla fine della gita.

Per alcuni giorni, poi, fra Colonel Bogey e Giuseppa cicciona d’or, ebbi, lo ricordo assai bene, le guance quasi paralizzate e le corde vocali inutilizzabili.

Grande, davvero grande ed indimenticabile il millenovecentocinquantotto


[1] La popolarissima «Colonel Bogey march» fu scritta nel 1914 dal Luogotenente F.J. Richetts (1881-1945) direttore di una banda militare britannica. Sulle sue note sono stati spesso cantati versi satirici, talvolta volgari. I più noti, diffusi in Inghilterra durante la II° guerra mondiale ebbero il titolo di «Hitler Has Only Got One Ball».

martedì 21 ottobre 2008

Storia di un «romagnolo dentro»

Sintis rumagnul in Lusemburgh

di Remo Ceccarelli




Ho conosciuto Remo sul forumrossoblu, luogo d’incontro sul web dei sostenitori del Bologna. Un vero vulcano di idee, di slanci, propositi e soprattutto di sentimenti. Ci siamo visti, e conosciuti meglio, una decina di giorni fa quando è venuto, assieme ad Alessandra a rendermi visita a Filo, a casa mia. La sua però è una storia troppo bella ed interessante per non essere divulgata, ovviamente col suo consenso, ai lettori di questo blog. Eccola qui allora tutta la storia di questo romagnolo in Lussemburgo, e raccontata proprio da lui, con le sue parole, atóran a l’irôla, come s’usava nel tempo antico. Una ciöpa d’zŏch int e’ camen, un bichir ad che bon int al man, e adës: scultì mo’… (Agide Vandini)




Caro Agide,

tu mi chiedi di raccontarti la mia storia, ebbene in Lussemburgo, anzi ad Esch-sur-alzette, la capitale del ferro come la chiamano qui, io sono solito dire che ci sono arrivato nel 1908, quando sbarcarono in realtà i due fratelli maggiori della mia nonna materna.

Lei li raggiunse nel 1910, dopo che morì il padre, giacché la madre, la mia bisnonna, era già mancata da alcuni anni. Veniva dai Greppi dietro a Talamello (formaggio di fossa per intenderci), da un posto che si chiama Ca' Francesconi (Ca' d’Francescoun). Assieme a lei salì il fratello più piccolo, Alessandro, nonno del rettore dell'attuale Università di Lussemburgo.

I miei nonni materni erano mezzadri, e chi, come loro, venne in Lussemburgo trovò lavoro in miniera e posto letto (bada bene, non stanza…) affittato per dodici ore, a turno, a due persone. Mia nonna tornò in italia una sola volta, rispedita a forza dopo l'inizio della 1a guerra mondiale: dieci giorni di viaggio in vagoni tirati per lo più da cavalli, poiché le locomotive erano di strategica importanza militare. Mai più volle tornarci dopo... Comunque mia nonna (morta nel 1984) seppe raccontarmi della fame continua che trovò in Italia, altro non ha mai voluto dire a nessuno.


Passata la Grande Guerra, tornò a Esch e, alla fine degli anni ‘20 si sposò con un ragazzo veneto (di Calderino, tra Verona e Vicenza) venuto a riposarsi in miniera dopo alcuni anni trascorsi al Piave col fucile in mano. Nacquero due figli, tra cui mia madre nel 1932. Abitavano in un condominio di 14 famiglie, tra miniere e altiforni (secondo i canoni del taylorismo), di cui 11 collegate alla mia: la casa veniva chiamata in effetti «la casa dei romagnoli», tanto da farne un articolo in un giornale locale.

Come racconta ancora oggi mia mamma Irma, la folta comunità italiana dell'epoca era spaccata in due: pro-fascio, anti-fascio, questi ultimi nettamente superiori di numero. Noi eravamo tutti «anti» meno uno a cui i miei ancor oggi non rivolgono la parola, mi spiego? Tra gli implicati nella lotta antifascista, il grande Luigi Peruzzi, attivista del PCI anche dopo la guerra, nonché promotore della Festa de l'Unità in Lussemburgo (ad oggi l'unica fuori dal territorio italiano e alla quale vado sempre a dare una mano), che visse la realtà dei campi e le cui memorie saranno presto pubblicate in italiano (per ora c'è solo la versione tradotta in francese, perché nessun editore italiano se ne è interessato).


Dopo la seconda guerra mondiale (se vuoi ti uccido di storie vissute), mio padre Riccardo, mezzadro nato nel comune di Maiolo (quindi dall'altra parte proprio di Talamello, ad d'là de’ fiom insomma) si fa convincere dalle lettere di alcuni suoi cugini a raggiungerli ad Esch, dove ormai parecchi di loro sono nati. Tra i suoi parenti in Lussemburgo c' è anche la cugina di secondo grado di sua mamma, ossia la mia nonna materna: quando si dice che il mondo è piccolo… Insomma, mio padre intuisce che il mondo contadino sta per chiudere i battenti e, dopo il servizio militare svolto a Palermo (ove diede anche la caccia al bandito Giuliano), decide di partire, a 24 anni, con una delusione amorosa e poco altro nella valigia.

L'obbiettivo è, partendo da zero, mettere assieme i soldi per comprare una casa ai miei nonni paterni (il nonno era asmatico a causa della prima guerra mondiale, passata nelle umide trincee del Piave), ed anche una moto che doveva essere rossa (comprò una moto Guzzi Airone, ma ci tornerò dopo). Fece le due cose nel giro di un anno, perché all'epoca lavorare in miniera significava, in Lussemburgo e con l'aiuto di un cambio favorevolissimo contro la lira, prendere quattro volte lo stipendio di un muratore.


Non resisto al piacere di raccontarti cosa accadde quando mio padre scese dal treno a Lussemburgo città. Porse allo sportello una banconota da 20 franchi assieme ad un biglietto con la scritta ''Esch-sur-alzette'' (entrambi inviatigli dai cugini), perché ovviamente non conosceva una parola della lingua locale, e saltò sul treno. Quando arrivò ad Esch, decise istintivamente di seguire due ragazzi che parlavano in dialetto romagnolo (il granducato era strapieno di romagnoli dei colli all'epoca) e quando vide che stava per finire la strada si avvicinò loro e chiese, in dialetto, dell’indirizzo cui era diretto. Gli fu risposto: «T’cì propri dnenz a cà!''. Ecco, ma ce ne sono mille altre di queste storie volendo.

In sostanza anche lui scese a lavorare nel buco, trovando il tempo per divertirsi ed abbandonando praticamente subito l'idea di ritornare (uno tra i pochi, e io aggiungerei, a volte ''purtroppo'', altre volte ''per fortuna''), anche perché nacque del tenero fra lui ed Irma, mia madre, che sposò ben presto. Seguirono due figlie con le quali parlarono in dialetto (una ora sta a Como) e molti anni dopo (1967) il sottoscritto al quale fu deciso di parlare in italiano.


La mia fame, però, per il passato e per le mie radici è stata troppo forte. Verso i 15 anni ho iniziato a recuperare il terreno perso da piccolo e con grande sorpresa dei miei cominciai, ad un certo punto, a rispondere in dialetto ogni qualvolta mi era possibile. Bisogna dire però che dovevo essere ben disposto, perché, oltre ad aver sempre avuto il dialetto nelle orecchie, sono anche cresciuto a piadina, tagliatelle e lasagne, boia d'un mond!

Avrai notato che il mio italiano è una specie di ''italiondo'', l'italiano del terzo mondo [in realtà ho apportato soltanto correzioni marginali (nota di a.v.)], perché a differenza dei tanti figli di emigranti della mia generazione, io decisi di non seguire alcun corso di italiano, preferendo dedicare il tempo libero al pallone, alla lettura, alle boiate che si fanno da ragazzi, tant'è che ho imparato a leggere l'italiano tramite i «Topolino» e si vede purtroppo.

Mi sono iscritto al Liceo, secondo caso nella famiglia emigrata oltre al cugino che ora è rettore universitario. Tutti hanno lavorato in acciaieria o in miniera fin quando, negli anni 80, si iniziò a smantellare tutto. Ho scelto il «linguistico» per questo mio innato amore verso tutte le lingue tutte (parlo, oltre al dialetto, l'italiano, il francese, il tedesco, l'inglese, lo spagnolo, il portoghese e il lussemburghese), e mi sono iscritto alla sezione spagnola, perché l'italiano lo conoscevo già.

La mia intenzione era di fare Giornalismo a Strasburgo, ma durante l'ultimo anno di liceo capìi di non averne più, insomma, anche se i voti restavano sempre buoni. Musi lunghi in casa, mio padre non mi rivolse la parola per oltre una settimana. Per lui era una delusione terribile, lui che avrebbe voluto studiare, ma che dopo la 3a elementare (ha poi ottenuto il brevetto della 5a) fu obbligato al lavoro nei campi, come tutti. Soltanto pochi anni fa ha avuto modo di dirmi che, alla fin fine, non ho poi fatto troppo male nella vita. Questi sono i suoi tempi, questo è anche e soprattutto la dimostrazione di quanto sia rimasto fedele alle sue origini: parole poche, ma pesanti come pietre.


Da neodiplomato mi cercai un lavoro, che trovai subito in una banca francese, anche se nulla mi aveva predisposto al mondo bancario, ma nel 1986 avrebbero preso anche un cane morto, tanto forte era la richiesta di personale. Io, però, aspiravo ad un lavoro in ambito italiano e dopo un anno entrai nella Banca Popolare di Novara - Lux. Sette bellissimi anni, che mi videro presto passare dal back-office alla sala mercati: diventai trader di titoli, roba da matti! Usavo tutte le mie lingue, anche il dialetto, per esempio guadagnando come clienti la Banca Popolare di Ravenna e soprattutto la Cassa di Risparmio di Ravenna dove trovai un responsabile dei titoli prossimo alla pensione e poco incline a parlare, non dico inglese, ma italiano, e che fu felice come una Pasqua di concordare quasi tutto con me in dialetto!

Nel 1995 il mio capo fu contattato per fare il direttore della nascente succursale lussemburghese della Carisbo e mi volle a fare il responsabile dei titoli. Io accorsi, anzi, volai con entusiasmo, perché in qualche modo riuscivo a lavorare per la mia terra. Furono otto anni strepitosi, ottenni tutto: soldi, riconoscimento, successo, amore... Eh sì, perché la Carisbo c'entra con la mia Ale, e mi spiego.


Nel 1997 un mio collega bolognese (ora direttore S.Paolo-Intesa a Dubai) mi disse di seguirlo a Bologna per il ponte di Ferragosto e io non ne avevo troppa voglia perché ero appena tornato da Rimini (in ferie presso i miei zii come sempre fin da bambino). Alla fine mi convinse ad aspettarmi nella sua casa di via Fondazza. E, assieme a sua moglie chi c'era? Certo, Alessandra! Ci siamo marcati per tre giorni, poi è venuta su in Lux a trovarci e qui è decollata tutta la storia. La rividi altre due volte e sui primi di novembre, al ristorante ''Vecchia Roma'' di Calderino, le dissi: «O vieni su te, o vengo giù io...». Per mio sommo dispiacere di allora (a ragion veduta un pò meno) lei, innamorata del Nord Europa, decise di raggiungermi in Lux.

Nel 2003 fui vittima della fusione col S.Paolo, che mi eliminò. Ale, dotata di ottimo nasino, mi aveva fortunatamente convinto, due anni prima, a fare le carte per diventare lussemburghese (dico convinto perché l'idea stessa mi era insopportabile, tant'era il mio senso di appartenenza e lo è ancora) che mi ha dato accesso ai concorsi statali: ne ho vinto uno dopo due mesi scarsi, e ora calcolo le pensioni degli statali. Beh, meno Far West, meno divertente, ma più rilassante.

Alessandra è nata a Bologna, unica dei suoi, perché tutti gli altri sono nati a Solarolo, quindi, in pratica, è... romagnola! Come vedi, l'italia mi ha dato tutto, senza che ci abbia mai risieduto. Ale è qui con me da dieci anni ormai e mi sembra ancora un sogno ad occhi aperti.


Ah, capitolo dialetto: Ale lo capisce, ma non lo parla più, appena qualche battuta, mentre io, figlio di figli di emigrati, lo parlo ancora decentemente, lo respiro dentro di me, tant'è che quando sono a Rimini e sui miei Greppi faccio fatica a trattenere le lacrime (giuro) sentendo la gente esprimersi proprio come i miei nonni e chi prima di loro. Quando sono a San Leo, a Novafeltria, a Verucchio, Sant'Agata Feltria, a Pennabilli eccetera e mi guardo intorno, mi dico sempre che la fame deve essere una brutta bestia se, chi è nato in un posto così bello, decide liberamente di andarsene a lavorare dentro a un buco profondo oltre 200 metri. Quando sono lassù mi gusto ogni secondo, parlo a tutto e tutto mi parla: non saprei descriverti a parole cosa provo, anzi nemmeno lo voglio fare. Ti posso solo dire che sono al mio posto, semplicemente.


Io sono romagnolo dentro, più di tanti che non sanno nemmeno cosa significhi, perché ho coltivato fino all'ossessione questa mia appartenenza, positivamente, senza odiare nessuno e senza considerare da meno chi non lo è: semplicemente provo il bisogno di essere legato a questa terra, come se io dovessi un giorno, spero davvero accada, chiudere il cerchio per conto di chi è dovuto partire da lì, praticamente senza poter scegliere.

Io so di essere romagnolo, come lo sanno anche i sette comuni della Valmarecchia che hanno chiesto di tornare in Romagna, per tornare alla verità storica.


Chiudo con un piccolo flash back. Prima ti dicevo dell'Airone di mio padre. Ebbene, dopo alcune ricerche, sono riuscito a stabilire con precisione qual'era la versione comprata da mio padre Riccardo, perché la sua moto fu radiata e demolita nel 1968. Due anni fa, tramite un sito web specializzato, ho trovato un modello identico a Parma e l'ho acquistato. Avevo sempre coltivato il sogno di cavalcare quella moto che in qualche moto è alla base della mia esistenza. Anche i miei sono stati piacevolmente sorpresi quando l'hanno rivista e pensa che il mio baldo vecchietto (82 anni) è riuscito a farla partire al primo colpo dopo 40 anni!


Ecco, ti ho detto qualcosina di me per aiutarti ad inquadrarmi. Rimane molto da dire e da parte mia ancor di più da ascoltare, poiché questo è quanto so fare di meno peggio, assieme a leggere. Anch'io penso che non possiamo fare a meno di incontrarci, quando verrò giù ti farò un segno.

Par adës a-t salut,


Remo

...e scusa se ti ho risposto con un romanzo.

venerdì 10 ottobre 2008

Lettera e poesia da Alcamo (Trapani)

Un cuore filese nella bella Sicilia

di Antonina Bambina



Egregio signor Agide Vandini,


sono la signora Bambina Antonina di Alcamo (Trapani ).

Sono nata qui in Sicilia nel 1956, ma all’età di sei anni i miei genitori si trasferirono a Molino di Filo, dove siamo stati per oltre nove anni. Mio padre Mariano ha lavorato i campi a barbabietola e fatto il muratore ad Argenta.

Ho frequentato le elementari a Molino e le medie a Filo. Lì ho lasciato gli amici e il mio cuore. La chiesina della «Chiavica di legno» era spesso meta delle mie scorribande e, ancora oggi, sul leggio c'è una preghiera che mi appartiene.

Spesso vado alla ricerca in internet di notizie e oggi ho scoperto il suo sito, con tanta storia e anche il suo bel libro sulle valli di Comacchio [La Valle che non c’è più, Faenza, Edit, 2006].

Ogni tanto vengo a trovare i miei amici a Filo ed è in in onore dei vostri eroi della guerra che ho scritto una poesia che qui le invio. Spero le faccia cosa gradita. Fa parte di un libro di poesie da me pubblicato e che, per circa un mese, è stato esposto nell'edicola di Filo.

Le invio i miei più sinceri saluti.

Antonina Bambina



Aprile 1945 (di Antonina Bambina)


Alla memoria di chi pensava che

la Libertà e la Vita, fossero un diritto

e pensava che ogni ingiusta guerra

chiede sempre un tributo troppo grande:

la perdita di quei Valori.



A ridosso del Reno,

un pugno di disperati,

in silenzio, cercava riparo.


L’alto verde argine e una stalla,

sembravano le uniche amiche,

pronte a coprire anche i respiri.


Dalla golena, giungeva

un intenso profumo di viole,

che si mescolava all’odore

pungente di quel fienile.


Il rombo dell’aereo amico,

copriva il pianto impaurito

dei bambini.

Un sorriso di speranza…

un boato poi… il nulla.


Fuoco e cenere prendevano

il posto di quei vani sorrisi.

Sarebbe bastato un momento,

anche solo un momento,

per poter rivedere il sole,

per poter gridare:

«… Liberi».



Cara Antonina,

Ho ricevuto pochi giorni fa lettera e poesia che, non solo sono state gradite, ma, come ho già avuto modo di scriverti, mi hanno emozionato ed anche, per la verità, un po’ commosso.

Tanta dimostrazione d’affetto per il nostro vecchio paese, parole che vanno dritto al cuore, versi che riecheggiano temi toccanti e cari alla nostra gente, hanno scatenato i miei ricordi e mi hanno fatto tornare indietro nel tempo, a Sentimenti e a Valori che oggi non sembrano più di moda e che quasi sempre, anche chi li prova, difficilmente ha la forza e la voglia di condividerne il senso con qualcun altro, un prossimo che, sempre più, percepiamo come estraneo, poco incline a «buonismi» e «sentimentalismi» cui non corrispondono tangibili benefits, refrattario, insomma, a ciò che non porta, quasi mai, nulla in saccoccia.

E invece, eccoci qui. Potere di Internet, ma anche potere di un sentimento forte di appartenenza ad una comunità, quella di Filo, storicamente battagliera e coesa, orgogliosamente legata a Valori di Solidarietà, ai grandi temi della Pace e della Democrazia, grata ai suoi tanti Martiri ed Eroi, ai martiri del Lavoro, ai martiri della Libertà che ne hanno tracciato e disegnato, fin da epoche remote, l’inconfondibile identità e DNA: la «filesità» appunto, una fiammella mai spenta di cui, oggi, una significativa testimonianza giunge fin da Alcamo, dalle tue parole affettuose, dalla calda e cara Sicilia.

Il bel testo poetico tocca temi, lutti dolorosi, luoghi e fatti lontani nel tempo, ma ancora ben vivi nel ricordo dei filesi che li hanno vissuti, e di quelli come noi, nati poco dopo, che ne hanno percepito l’eco nei crudi racconti del dopoguerra. Leggendo i tuoi versi, nella mente e nella memoria scorrono le tante vittime dei bombardamenti , i terribili attacchi aerei scatenati prima della battaglia finale e soprattutto l’immagine della povera, numerosa famiglia Bezzi intrappolata e spazzata via per sempre, il 12 aprile del ’45, fra le macerie del rifugio di Chiavica di legno, proprio a due passi dal Reno e dalla Libertà.

Ben 92 furono in paese i caduti civili. Ad essi si aggiunsero 31 militari e 18 Partigiani e Martiri della Libertà: in tutto 141 vittime filesi a cui andrà sempre il nostro deferente ricordo, un tributo troppo grande per la nostra piccola comunità alla triste tragedia della Guerra ed alla battaglia dell’«Argenta Gap: il colpo, la spallata finale delle Forze Alleate alle armate nazi-fasciste, nella lunga Campagna d’Italia.

Grazie, Antonina, grazie del ricordo così ispirato e profondo, e grazie anche ad Internet che ci ha permesso e ci permetterà ancora, io spero, di sentirci, da filesi, sempre un po’ in famiglia ed idealmente vicini.

Ciao.

Agide Vandini


La famiglia Bezzi spazzata via, a Chiavica di legno,

dal bombardamento alleato del 12 aprile del ‘45

Filo, 14 aprile 1945 le truppe alleate attraversano il paese fra le macerie: è la Liberazione