venerdì 2 luglio 2010

Perché Filo è diviso in due?

Agide Vandini,scrittore e ricercatore,

risponde a Benedetta Bolognesi, responsabile della Biblioteca Comunale Argentana


Si è svolta ieri sera, con larga partecipazione di pubblico, la prima delle serate organizzate dai due Consigli di Frazione e dedicate ai “Talenti” filesi. Era la sera a me dedicata, una bella Intervista di Benedetta Bolognesi sul tema “ Perché Filo è diviso in due?”. Il ritrovo si è tenuto in una casa contadina nei pressi dell’Oca, nell’ospitale casa Pertegato in una bellissima atmosfera da antico Trèb, con i presenti allietati dal talentuoso sax di Dario Lusa che, da parte sua, si è superato in una serie di musiche dolcissime.

Voglio ringraziare ancora e complimentarmi con chi ha ospitato e organizzato l’evento e con tutti coloro che hanno reso possibile il lodevole ciclo di iniziative all’insegna della cultura e della storia locale.

Pubblico qui i miei appunti scritti, appunti che, grosso modo, credo di aver rispettato nell’esposizione orale e nella illustrazione delle immagini proiettate.

Ovviamente si tratta di un condensato di storia intorno al tema centrale in risposta a cinque quesiti, sicché alcuni argomenti li ho trattati, per ragioni di tempo, molto di sfuggita, altri li ho omessi per il timore di allargarmi troppo. Per una trattazione più completa degli argomenti, per le fonti, i riferimenti bibliografici e documentali di interesse del lettore, si deve ricorrere al mio testo A.Vandini, Filo la nostra terra, Faenza, Edit, 2004, e utilizzare l’indice toponomastico – analitico (in ordine alfabetico) dei luoghi (pp.396-400) (a.v.).


Cliccare sul immagini per vederle ingrandite



Quesito n.1 - CURIOSITA’ INTORNO ALLA RICERCA STORICA.

Come si è svolta la tua ricerca storica: in quali istituti (biblioteche, archivi) hai potuto rintracciare le fonti documentarie? c'è stato qualche documento che si è rivelato particolarmente interessante o decisivo in questa ricerca? ti sei basato anche su fonti orali?




01- Frontespizio



02- Don Giuseppe Cellini


03 – Inventario Don Cellini (1890)

L’interesse per la storia locale risale alla mia adolescenza e alle prime letture di storia argentana (L.Caravita – A. Vasina, pubblicazioni anni’50 e ’60). La passione fondava le sue radici soprattutto nei racconti degli anziani della mia casa, a cominciare da mio padre.

Furono proprio i loro racconti ascoltati nei trebbi tenuti nelle sere d’estate, mentre si prendeva il fresco davanti al portone del nostro condominio, ad affascinarmi. Erano storie dai contorni fumosi che parlavano di un paese che “una vôlta e’ fašéva Cumòñ” di leggende come quella del “ragno d’oro scomparso ai tempi di Spina e forse da qualche parte sotto i nostri piedi ”, “dl’aqua dal vàl che una vôlta l’arivéva infẹna a la Ciša” dell’”arco” che doveva essere costruito fra il Palazzone e la Caserma se Filo fosse rimasto sede del Comune” ecc.

Di tutte queste dicerie si continuò poi a parlare, fra amici, nelle sere d’osteria a fine anni ‘70 e fu lì che decisi, aiutato inizialmente da alcuni coraggiosi, di effettuare, di sabato, ricerche in biblioteche ed archivi.

Per quel primo lavoro che prese il titolo de’ “L’antico Comune della Riviera di Filo”, le fonti furono principalmente bibliografiche (libri all’epoca forniti in visione sul posto dalla Comunale Argentana e dall’Ariostea - e senza mezzi per fotocopiare, sicché furono necessarie molte trascrizioni manuali di brani che potevano interessare) e alcuni documenti dell’Archivio Parrocchiale di Filo grazie a Don Etelberto, sempre molto disponibile nel mostrare la corrispondenza più antica.

Ricordo un documento che all’epoca mi parve molto interessante, un inventario di Don Cellini (parroco di Filo per quasi mezzo secolo dal 1868 al 1915 – v. foto (02 e 03) -) che conteneva alcuni cenni storici assai utili, cenni che, mi accorsi solo più tardi, il parroco aveva ricopiato da una pubblicazione ottocentesca (Le frazioni di Filo e Longastrino e il comune di Alfonsine di Giuliano Banzi, 1863).

Diverso e molto più completo, ma allo stesso tempo assai complesso è stato il lavoro di ricerca compiuto più di recente fra il 2001 ed il 2004 alla base del testo “Filo, la nostra terra”. Moltissime le fonti consultate sia documentali che bibliografiche (in massima parte presso l’Archivio Storico Comunale di Argenta, la Classense, l’Ariostea, gli Archivi di Stato). Lì fui aiutato dal grande entusiasmo dell’amico Beniamino Carlotti, con cui ho condiviso le piccole spese e le scoperte più interessanti, talvolta imbeccati da segnalazioni di preziosi ricercatori filesi come Vanni Geminiani e Bruno Folletti.

L’impianto abbozzato nell’”Antico Comune” ha ricevuto in quella fase conferme ed arricchimenti dai documenti emersi, mentre pezzi sconosciuti della nostra storia venivano alla luce grazie alle scartoffie dell’Archivio di Stato di Ferrara, lasciti Bentivoglio e Massari.

Dovessi indicare il documento a cui attribuisco più importanza e che più mi ha dato modo di capire e corroborare la storia antica del territorio, direi forse gli Statuti Ravennati Medievali per le parti da esso dedicati alla nostra Riviera.



Quesito n. 2 - MORFOLOGIA, ORIGINI DEL TERRITORIO E DEL TOPONIMO.

Come si presentava anticamente agli occhi dei viaggiatori il territorio filese?


04 – territorio IV – VI sec. D.C.



05 – Phile (Attica antica)




06 - 25 set 1022 Vitale Bergunzo ed altri coloni chiedono a livello all’arcivescovo Eriberto terra e palude nel territorio di Argenta, pieve di San Giorgio



07 - Eccl[esi]e S[an]c[t]e Marie

q[ui] d [icitur] in Filu[m].

Dato il tema della serata tralascio l’importante parte evolutiva del territorio, almeno fino all’Alto Medio Evo. D’altronde, seppure possa aversi certezza di antichi insediamenti abitativi nei territori vicini, io credo che, per giungere al luogo e al villaggio chiamato FILO ci si debba riferire al tempo in cui i bizantini di stanza a Ravenna dovettero fronteggiare l’invasione e la penetrazione longobarda (VI-VIII secolo). A quell’epoca i pochi palmi di terra a fianco degli specchi d’acqua (quelli che rendevano l’ex capitale imperiale quasi imprendibile dall’interno), fecero da avamposto militare di fronte alle minacce che venivano da settentrione.

La geografia del territorio a quel tempo doveva essere all’incirca quella ricostruita nella bella (04) Mappa, trovata di recente in rete in un sito alfonsinese, che bene evidenzia, fra l'altro, le zone della centuriazione romana.

E’ in queste terre emerse o dossi che sorsero i villaggi di Bandon e Phylai (Bando e Filo), toponimi che ricordano nel loro stesso nome unità, reparti militari, dell’esercito bizantino dislocati nel territorio. E’ questa, quanto meno, l’ipotesi che ritengo più plausibile, avanzata ormai da diversi autori. In particolare l’accezione greca Phylai, che in origine indicava gruppi o tribù delle città-stato, aveva assunto (fin dalla riforma ateniese di Clistene del VI sec aC), il significato di “reggimento guidato da un filarca”. (Si noti che Filò, il trèb ferrarese e d’alta Italia, pare ancora conservare il significato originario).

Ipotesi minori sull’origine del nostro toponimo ne sono state fatte, e altre ancora se ne possono fare, basandoci ad esempio sul termine latino filum, recta linea con ovvio riferimento all’andamento del fiume in corrispondenza del territorio.

Fu quello il significato che piacque nel basso medio Evo a Flavio Biondo e Ludovico Ariosto (E indi a Filo alla dritta riviera…).

Per restare invece in ambito greco-bizantino qualche volo di fantasia si può fare intorno a parole come Philo (dall’indo-europeo Philos = amico), Phyllo, una sorta di pasta-sfoglia imbottita a mo’ di tortelloni, oppure alle antiche città di Phillos (Tessaglia, nota per il culto di Apollo) e (05) Phile (Attica, fortezza ateniese).

Poco credibile ho sempre ritenuto la teoria di Oreste Barbieri, che pur ebbe a Filo molti seguaci. Egli nel Ventennio, in pieno mito e culto della Romanità, riprese in due articoli di stampa alcune teorie dell’Ing. ferrarese Borgatti (1908) e attribuì il nome del paese ad un fantomatico passaggio di truppe romane del console Publius Furius Filus (223 aC). Quelle spedizioni contro i Galli, però, non attraversarono il nostro territorio, bensì quello piacentino abitato dagli Anamari. I romani del resto avevano da poco preso Rimini (268 aC), la Via Emilia fino a Piacenza neppure tracciata (189 - 187 a.C.) e la centuriazione era forse appena agli inizi. Ravenna tutta da colonizzare.

Quanto alla conformazione del territorio, secondo alcuni studiosi (Uggeri) il tratto di fiume rettilineo, chiaramente artificiale, che va da Bastia a Menata sarebbe di epoca anteriore alla formazione del Primaro (VIII sec.) e, quindi, in origine drizzagno del Vatrenus, fiume d’epoca romana che trovava foce in prossimità di Spina e alla cui sinistra scorreva una strada selciata. Ai margini di questa il villaggio chiamato Silicata (Diploma di Ottone I, 962), collocabile secondo Uggeri nella nostra riviera, nome che potrebbe essersi trasformato nel tempo in Case Selvatiche con la progressione Cà Salghêdi / Salvèdig / Salvadega / Salvatiche /Selvatiche.

Silicata e Filum (che diventerà Filvecchio / Molino di Filo) sono villaggi distinti ma vicini, all’epoca in cui (anno 1022) il luogo chiamato Filo e la sua chiesa di S.Maria sono citati in un documento giunto fino a noi (06 e 07). E’ la chiesa più antica del territorio dopo la Pieve di San Giorgio di Argenta.



Quesito n. 3. LA RIVIERA DI FILO.

Nei documenti più antichi si parla della "Riperia Fili" o "Riviera di Filo": puoi spiegarci di cosa si tratta e illustrarci brevemente la sua organizzazione territoriale e amministrativa?


08 – Ricostruzione villaggi rivieraschi medievali



09 – Tavola Mascanzoni

(Descriptio 1371)



10 Consistenza villaggi rivieraschi (1371)

La mia ricostruzione (08) della parte di Riperia facente capo all’attuale frazione di Filo si basa sulle indicazioni geografiche (villaggi, fosse e canali) del Diploma di Ottone I (962), delle pergamene ravennati (Fantuzzi) e della Descriptio Romandiolae del Card.Anglic (1371), indicazioni che ho sovrapposto alla dettagliata topografia di primo Ottocento (1814) che vedremo più oltre.

Sappiamo dagli Statuti duecenteschi ravennati (XV) che la Riperia andava da “San Biagio al mare” poiché gli “hominum de ultra Padum” sono quelli “qui stant et steterunt ultra padum Santo Blaxio usque ad mare”.

Godono i nostri villaggi di una certa autonomia territoriale, appartengono al Distretto di Ravenna che ne nomina il Podestà. Argenta invece, all’epoca è già contesa dai ferraresi, fa capo a Ravenna ma con un suo Comitatum fin dalla fine del sec. XII ed ha completa autonomia amministrativa nonché suoi Statuti.

Nello stesso art. XV gli Statuti ravennati indicano confini con Argenta da ripristinare e da ciò si evince come la Riperia, subordinata religiosamente alla Pieve argentana di San Giorgio, sia sempre dipesa giuridicamente dal Comitatum e Districtum di Ravenna. (et teneatur potestas providere quod confines, qui consueverunt esse et stare inter districtu Ravenne et Argente sint et stentet reduncantur in pristinum statum ut consueverunt).

Argenta è contesa per un paio di secoli da ferraresi e ravennati finché viene affittata agli estensi (1344) e infine ad essi venduta (1421).

Con questa cessione ai ferraresi la “cunfina” di S.Biagio, fino ad allora termine di districtum e di comitatum, diventa confine di stato, fra Stato Pontificio e Ducato Estense.

Questa situazione è puntualmente trascritta nella Descriptio dell’anno 1371, censimento dell’epoca. Vi si indica che il comitatum di Ravenna confina con quelli di Cervia, Cesena, Forlì, Faenza, Casemurate, Bagnacavallo e Argenta.

La Riperia Fili fa parte a pieno titolo della Provincia Romandiolae, come si nota nella mappa del Mascanzoni (09). Il confine nord col ferrarese è quello dell’argine circondario Pioppa.

La Descriptio Romandiolae (da cui il comitatum Argentae è escluso) fornisce la consistenza dei villaggi rivieraschi (10) con le loro antiche denominazioni e permette la valutazione d'l’importanza economico-politica della riviera (sale, traffici e risorse vallive).

Vi compaiono ben 249 focularia (117 nell’attuale frazione di Filo) quando Russi ne conta 70, Conselice 33, Massalombarda 35, Ravenna civitas 1743.



Quesito n. 4 - LA DIVISIONE DEL TERRITORIO.

Il fatto che oggi Filo sia suddiviso fra due comuni e due province, e (così come ad Argenta e in altre frazioni) la parrocchia in territorio ferrarese dipenda dalla Diocesi di Ravenna, fa pensare che questo territorio sia stato sottoposto, nel corso dei secoli, a diverse dominazioni, sia stato forse conteso tra diversi potentati e abbia modificato via via i propri confini e la propria situazione amministrativa. Ci piacerebbe conoscere qualcosa di più di queste vicende e sapere anche quando si sono formate queste due comunità separate.


11 La carta Minorita (XV secolo)


12 - Mappa veneziana (1460)



13 Mappa veneziana (1460)

(particolare zona di Filo)

Con la perdita di Argenta e del suo Comitatum la Riperia Padi viene a rivestire maggiore importanza strategico militare.

Nella seconda metà del Trecento i Da Polenta erigono sul Po di Primaro la Bastia in corrispondenza del fossato Zaniolo ai fini soprattutto della riscossione dei diritti di passaggio sul fiume (il “rastellum”, 1383). Gli Estensi interessati a quei profitti e intenzionati ad espandersi verso sud, vogliono fare della Bastia “scurtapassi” il loro caposaldo difensivo, e trattano a più riprese coi Da Polenta la nostra Riperia. Tentano una permuta nel 1394 dando in cambio nientemeno che Bagnacavallo, Cotignola e 6000 scudi, ma l’accordo viene annullato da un arbitrato pochi anni dopo (1398).

A seguito dei rovesci dello scontro militare con Venezia (1404) i Signori di Ferrara, avuta in assegnazione Argenta a titolo definitivo (1421), si assicurano anche la Riviera e portano nel nostro territorio la linea di confine al Primaro (1433).

E’ questo l’atto che segna la divisione del territorio. La parte sinistra della Riviera entra nel Ducato Estense autonoma da Argenta, riveste grande importanza militare [si veda la quattrocentesca carta Minorita (11)], ma l’abitato filese già distribuito fra le due rive [Disegno veneziano del 1460 (12-13)], viene ad avere, quanto a competenza politica, due Comunità separate dal fiume, una ravennate e l’altra di dipendenza ferrarese, separazione destinata a rimanere, si direbbe oggi, per sempre.

L’appartenenza delle due sponde non cambierà infatti all’estinzione della casa d’Este (1598) e neppure all’ ”incameramento” del Ducato nello Stato Pontificio che diventa “Provincia ferrarese” tenendo alle proprie dipendenze la Riviera di sinistra Primaro. La stessa sorte tocca alle altre Quattrocentesche conquiste romagnole che tuttavia Ferrara perderà con l’Unità d’Italia.

A Filo intanto si è venuto a sviluppare un nuovo centro cittadino fra Filvecchio e Cà Salvatiche, a poca distanza dall’Hospitale di san Giovanni nel villaggio rivierasco di Lombardia, nome che scompare allorché viene assorbito in quello di FILO. Viene edificata la chiesa cinquecentesca di S. Agata, quella che verrà demolita nel 1929 e sostituita dall’attuale chiesone senza campanile.

Il funzionamento del Comune (o Podestaria) della Riviera in cui convivono le tre comunità (o Comuni) di Filo, S.Biagio e Longastrino è, in età Moderna, il seguente («Notizie del Contado Argentano», 1784):


Comuni della Riviera di Filo. Loro Podestà nato il Signor Governatore di Argenta, e così il Cancelliere Criminale; ma il Notaro Civile di detta Riviera si deputa privativamente dal Signor Tesoriere di Ferrara. Ha questa Riviera un’estensione di circa diciotto miglia di lunghezza, ma di poca in larghezza, perché il territorio argentano, poi le valli Camerali di Comacchio molto la restringono. Confina a Levante col Ravegnano, e colle suddette valli, a Ponente coll’Argentano, a mezzodì col Po d’Argenta, ed a Tramontana colle suddette Valli Camerali. Nello Spirituale è soggetta al Vicario di Ravenna residente in Argenta. Sono tre ville che la compongono, ma la principale si è Filo, che le ha dato il nome. Ogni una di esse si elleggono dal Loro Consiglio, unito in un solo alla presenza del signor Podestà, due Consoli, che governano e durano un anno.



Quesito n. 5 - L’ACQUA ELEMENTO ESSENZIALE E IL MUTAMENTO DI SCENARIO.

Nello scenario che hai descritto emerge come elemento essenziale la presenza dell'acqua, che certo ha contribuito a disegnare nel corso del tempo il panorama del Filese: ci puoi illustrare in che modo e in quali e poche questa presenza è stata determinante nel ridefinire il paesaggio?


14 – Mappa Vaticana (1580)



15 - Rettificazioni del Primaro

(sec. XVIII)



16 - La carta napoleonica (1812-1814)


17 La Provincia Ferrarese preunitaria (1861)



18. La Romagnola ferrarese preunitaria (1861)


19. Municipio Argenta maggio 1862



20. Municipio Argenta Agosto 1862

L’acqua, v. Mappa Vaticana 1580 (14), è certamente l’elemento dominante del paesaggio delle due sponde fino ai prosciugamenti su larga scala iniziati a fine Settecento.

Fino ad allora il Po vecchio scorre a fianco della strada provinciale che oggi ne percorre l’argine sinistro. Da quella parte del fiume si distendono verso nord a perdita d’occhio le valli salate le cui propaggini toccano il paese e le sue borgate.

Fra Case Selvatiche e Sabbionara ad inizio Seicento si costruiscono le Grandi Chiaviche Paoline per convogliare le acque di piena del Po nelle Valli Brancole. Il tentativo fallisce per carenze strutturali del progetto.

A Filvecchio, nella seconda metà del Cinquecento, il Marchese Bentivoglio utilizza una vecchia chiavica per realizzare un grande progetto di utilizzo dell’acqua del Po ai fini industriali ed agricoli. Sorge il Molino che darà un nuovo nome alla borgata e che sarà sempre al centro di interminabili liti coi comacchiesi. Essi non vogliono acque torbide nelle valli, temono per il sale e le anguille, soprattutto a causa della progressiva rovina dell’Argine del Mantello, l’istmo che unisce Filvecchio con Paviero, in origine deputato a proteggere (come un mantello appunto) le valli salate di Comacchio da quelle meno saline del “Campo del Mezzano”.

L’acqua derivata dal Po, dopo aver fatto girare le macine del Molino, prima di immettersi in valle nei pressi della “Pioppa”, alimenta una delle prime risaie del territorio (la coltura del riso inizia in Italia a metà Quattrocento). Un grande edificio ospita presso la Möta il pillatore da’ Risi (pileria - essiccatoio – magazzino). E’ la Risara che dà il nome alla valle circostante.

Alla parte destra, invece, verso Ravenna, il fiume non è arginato, tracima e sfoga le acque di piena, tramite apposite “bocche”, nelle Valli Ravegnane d’acqua dolce (dette di Filo e Longastrino), ossia nelle vestigia dell’Antica Padusa, un ambiente paludoso simile all’odierna Valle Santa. Fra il fiume vecchio e le Valli la striscia di terra coltivabile ed abitabile si allarga per effetto degli apporti continui dei torrenti appenninici.

Le premesse per una progressiva bonificazione del territorio si pongono con una serie di rettificazioni fluviali che l’innalzamento dell’alveo ha ormai reso indispensabili, soprattutto dopo aver deciso l’immissione del Reno in Po di Primaro a Traghetto, col Cavo Benedettino (sec. XVIII). Sono i tre “drizzagni” da Argenta a S.Alberto che vediamo nel disegno del Bertoldi (15). La diversione più ampia, quella che ci riguarda dalla Bastia al Passetto, è completata nel 1782 e comporta uno spostamento a monte della foce del Santerno (v. carta napoleonica 1812). Di fronte ad essa poco a poco si forma il villaggio di Chiavica di legno che ha l’effetto di incrementare la popolazione della parte ravennate.

La palude fra il Po vecchio (che funzionerà da canale di alimentazione dei Molini di Filo fino a fine Ottocento) e il Po nuovo viene prosciugata, popolata e coltivata da coloni e braccianti calati dalla Romagna oltre Po.

Il mutamento di “panorama” dà il pretesto per rimettere in discussione il confine ravennate-ferrarese all’indomani dell’Unita d’Italia (1861).

Il Governatore delle Romagne L. Farini aveva già nel 1859 deliberato la fusione dei comuni minori in quelli maggiori e Filo era ormai divenuto semplice ”appodiato” nel 1831. Col formarsi delle province del Regno la Romagnola estense, ferrarese da circa 4 secoli, v. Carta 1861 (17 e 18), chiede ed ottiene di trasferirsi in Provincia di Ravenna e di portare la linea di confine al Primaro-Reno.

In un primo tempo sembra che lo spostamento debba intendersi lungo la linea del fiume da poco rettificato e che questo comporti per la Provincia di Ferrara e il Comune di Argenta (ove il Comune di Filo sta per fondersi) l’acquisizione delle terre di Filo e Longastrino fra il Po vecchio e il Po nuovo. Sono terre passate (1815) dal Comune di Ravenna a quello nascente delle Alfonsine. Molte Autorità sembrano orientate in questo senso radicale, ma la questione in quei primi anni di Unità, quando ancora la capitale è a Torino, non appare né chiara, né definitiva. Ne nasce una disputa infinita.

Sono mesi (1862) di liti e contestazioni fra romagnoli e ferraresi, di pronunciamenti contraddittori; i proprietari terrieri ravennati si rifiutano persino di pagare le tasse a Ferrara, fino a che, sotto le pressioni di potenti deputati ravennati (Rasponi) viene deciso che il confine non si modifica e resta al Po vecchio (1863), v. lettere Municipio Argenta (19 e 20).

Argenta e il suo sindaco Vandini rimangono con un pugno di mosche in mano, vanno su tutte le furie, il suo consiglio comunale viene addirittura sciolto, ma la questione da allora rimane ibernata in ghiacciaia. Non se ne parla neppure in occasione degli aggiustamenti territoriali d’epoca Fascista, perché, così riporta Vespignani, Alfonsine evita rivendicazioni, allargamenti e razionalizzazioni per il suo comune sbilenco, nel timore di “revanche” argentane.

Lì, in ghiacciaia, la questione ancora giace e, date le implicazioni non solo burocratiche, lì rimarrà, io credo, per omnia saecula saeculorum

L’Unità d’Italia e la fusione con Argenta creano comunque le condizioni per metter mano alla bonifica del territorio alla sinistra del fiume fino alla linea dell’Argine Circondario Pioppa. Si completa così modifica del paesaggio iniziata con la rettificazione fluviale e viene favorita la conversione delle due sponde del vecchio fiume ad una economia prevalentemente agricola, una specializzazione che progredirà con l’incrementarsi della superficie bonificata. Il progetto porterà al totale prosciugamento del Mezzano dopo le bonifiche degli anni ’30 e ’60 del Novecento.

Se per queste ultime ci si avvale su larga scala di macchine sempre più potenti, le prime gigantesche opere idrauliche realizzate nella Bassa Romagna fra Settecento e Ottocento gravano invece su di uno straordinario sforzo umano, sulle braccia e sul sudore del cosiddetto “Quarto Stato”, un tempo dei “Servi della Gleba”.

A quell’epopea, a quegli scariolanti oggi ricordati in canti nati proprio in questi territori, e al perduto paesaggio della nostra terra, ho dedicato una decina d’anni fa la poesia dialettale T’è da savé, un dialogo immaginario fra padre e figlio che ora ho trascritto nel dialetto tipico filese seguendo nuove regole ortografiche. La ripropongo, pensando che possa concludere degnamente l’argomento trattato.



T’é da savé (Devi sapere),

A.Vandini, Bëli armunèi, Faenza, Edit, 2001, pp. 14-16

Trascrizione in dialetto tipico filese dell’autore, luglio 2010.




«Babo, t’an vìd che in ste paéš ch’è quẹ

u j è sól dö strê balórdi ch’al s cọr drì?»

«...A tẹ, chisà cus ch’u t pê ... E’ fàt l’è che


t bachèj spès zenza savé cus ch’e’ vô dì

quel ch’u t pasa dnìnz a j ọc! ‘Scólta alóra,

e chisà, che nenca tẹ t pọsa capì!


Stal dö strê surëli, ch’al va incóra

adës, da la Bastẹja a Lungastrèñ,

e che a tuchês agli a n fa d óra,


agli éra du éržan ch’fašéva da cunfẹñ,

òn élt, clêtar piò bàs, e a lè stramëž

u j paséva Pö, che dal vôlt l’éra tröp pẹñ


e, prema d truvê e’ mêr dòp un bël pëz,

e’ spartéva al vàl amêri de’ ravgnàñ

da quẹli salmastri e grandi de’ fraréš.


Prôva mọ d’srê i ọc, e d rèsar un s-ciàñ

ch vẹgna žö piàñ da la Basteia, pr andê

a Fìl, in bröza, cun la frọsta in mañ,


dušèñt e piò èñ fa. A la màñ drẹta t’é

e’ fiọm ch’e’ cọr cun la su aqua cêra,

e sòbit d là, l’arluš fen’a starluchê


un lêg che la Val Sënta la n stà da péra,

‘na scaparlê d culùr infẹn’a Fušgnàñ

stra i réz dagli ònd a zantanéra.


Se dòp a un pô t a t vu prilê d giamàñ,

long a tọt che balcòñ ad tëra che va

fẹn’ a l’Amnê, bọta l’öc un pô luntàñ,


dòp al ca ardupêdi, sòbit a d’là:

infẹna in zìl ... l’è tọt’aqua salêda.

Quèlc barcòñ e’ pasa piàñ d’avšẹñ al ca


càrg ad sêl ch’e’ gösta una matêda

e i l pôrta fórsi vérs a la Möta

d’indó ch’i l’tira fura int l’invarnêda.


Intant che la sumara la t scaröza

stra i giaròñ dla strê, t sint e’ cantê

di ranọc’, e pu e’ cuvê d’una ciöza,


e piò in là, un babẹñ che vô titê.

T šguẹc’ un pô stra quësta e clêtra sponda,

e stra un švulazér ad fòlg t vid a prilê


un faichèt da la manêla lọnga.

Ëcco un’êtra bröza ch la vẹñ gnichènd

da e’ Mulẹñ, carga ch’e’ pê ch’la s sfọnda!


Guêrda mọ ach fadiga ch’la sta fašènd

cla bẹs-cia da i mòscul ch’fa impresiòñ,

pr e’ padròñ infarinê ch’e’ sta s-ciflènd!


Quéši a Fìl la strê la rapa in sọ,

‘pët a la S-ciapèta, d’ciota, t vìd e’ paéš,

e al su premi ca, quẹli ch’i j diš : Vagòñ.


Stra i cọp di capèñ dö, trë butég:

e’ falignàm, l’ustarẹia, e’ fradór

e piò žö e’ campanìl piò bël de’ filéš».


«Babo, pröpi? Mẹ a t scultarẹb dagli ór,

mö un êržan... l’è sól tëra mẹsa lè!»

«U t pêr a tẹ... Invézi l’è un teṣôr!


Se te t savẹs, quẹnt quél ch’u t putrẹb cuntê!

E’ pê, lo, sól un grañ bisòñ ad tëra,

‘na muraja tọta preciša da guardê,


par... òñ ch’vẹgna quẹ parchè l’è vultê spéra,

par... òñ ch’vegna a gómbar, ch’pësa par chêš,

mo l’öc l’à da brilê com’una stëla,


s u j guêrda cgnusènd la stôria de’ paéš,

s u l’armes-cia cun quèl ch’u j arcôlda e’ côr

e la méñt. E’ sa ch’al fọ dal grand’ impréš


quëli di scariulént d’alóra. Un pô

par vôlta, cun di èn e sèmpar di èn,

impurbié, immalté, ló i tirê sọ


sti éržan ìlt, cun pùc quatrẹñ,

cun dal fadìg da bò, dal fati stracón,

che adës mai piò a s agl’imažinèñ.


U s pö dì che la Rumagna, un pcòñ

par vôlta, cavènd dla tëra ae’ mêr

e al val, i l’épa fata cun al cariôl!


A la fam i n’i putéva gnènc pinsê,

com’al zinzêl, a tọti al malatei,

i pinséva a la tëra da lavurê


supurtènd i sgnùr e al su angarèi.

I rumagnùl, al n’è miga ciàcar,

i s’è fët da par ló tọti stàl maravèi!


E puc èñ fa, quènd ch’u j fọ da cumbàtar,

par libarê e’ paëš parchè e’ dvintẹs

piò giọst, par fêl gnì fura de’ dišàstar,


tọti al vôlt ch’u j éra da lughês,

i nòstr éržan i à sèmpar dê una màñ,

parchè ste pòpul e’ putẹs arfês.


I chéñt di scariuléñt, qui de’ partigiàñ...

ét capì adës cus ch’u j è alè ‘d drì?

Se t pug’ n’urëcia, fórsi da là luntan,


‘na vóš d Libartê t la pu sèmpar sintì!

Un moc’ ad tëra côsa! Quèst l’è un tešôr,

l’è un monuméñt, e tẹ, t l’é da capì.


In déntar u ngn è munéd d’aržént o d’ôr,

u j è un bël pô d pió, e’ mi chêr žuvnèt,

u j brẹla mẹl e mẹla gòz ad sudór

chëschi da la frónt unësta di purèt! »


«Babbo, non vedi che in questo paese

ci son solo due strade balorde che si rincorrono?»

«... A te, chissà cosa sembra... Il fatto è che


parli spesso senza conoscere il significato

di ciò che ti sta davanti! Ascolta allora,

e chissà, che anche tu possa capire!


Queste due strade sorelle, che vanno ancora

oggi, dalla Bastia fino a Longastrino,

e che non riescono mai a toccarsi,


erano due argini che fungevano da confini,

uno alto, l’altro più basso, e lì in mezzo

passava il Po, a volte fin troppo pieno


e, prima di trovare il mare molto più avanti

divideva le valli amare del ravegnano

da quelle grandi e salmastre del ferrarese.


Prova ora di chiudere gli occhi, e di sentirti un uomo

che scenda lentamente dalla Bastia, per andare

verso Filo, col biroccio, con la frusta in mano,


duecento e più anni fa. Alla tua destra hai

il fiume che scorre con la sua acqua limpida,

e subito al di là vedi luccicare fino a sfavillare


un lago ancor più grande della Valle Santa,

una enorme quantità di colori fino a Fusignano

tra increspature dell’acqua che s’alzano a centinaia.


Se dopo un po’ giri lo sguardo alla tua sinistra,

lungo tutto quel balcone di terra che va

fino alla Menata, posa l’occhio un po’ lontano,


dopo le case rannicchiate, subito al di là:

fino al cielo... è tutt’acqua salata.

Qualche barcone passa lentamente vicino alle case


carico di sale che costa un’esagerazione

e lo portano forse verso la Möta

e da lì lo prelevano durante l’inverno.


Intanto che l’asino ti fa dondolare

tra le pietre della strada, senti il gracidare

dei ranocchi, poi il covare di una chioccia,


e più in là, un bambino che chiede la poppata.

Guardi un po’ oltre l’una e l’altra sponda,

e tra uno svolazzar di folaghe vedi volare in tondo


uno sparviero dalla lunga coda.

Ecco un altro biroccio che arriva cigolando

dal Molino, talmente carico che sembra sfasciarsi!


Guarda anche che fatica sta facendo

quella bestia dai muscoli possenti

per il suo padrone infarinato che sta fischiettando!


Quasi a Filo la strada sale,

verso la S-ciapèta vedi il paese sottostante

e le sue prime case, quelle chiamate: Vagoni.


Tra i coppi delle capanne due o tre botteghe:

il falegname, l’osteria, il maniscalco

e più giù il campanile più bello del filese».


«Babbo, davvero? Io ti ascolterei per ore,

ma un argine... È soltanto terra riportata lì!»

«Sembra a te... Invece è un tesoro!


Se tu sapessi, quante cose ti potrebbe raccontare!

Certo, sembra solo un serpentone di terra,

una muraglia uniforme da guardare,


ma a ... chi passa di qui perché s’è perso,

a... chi viene a cocomeri, a chi passa per caso,

ma l’occhio deve brillare come una stella,


se lo guarda conoscendo la storia del paese,

se l’associa a ciò che gli ricorda il cuore

e la mente. Sa che furono grandi imprese


quelle degli scariolanti di un tempo. Un po’

per volta, per anni e anni,

impolverati, infangati, loro innalzarono


questi alti argini, con pochi mezzi

con fatiche inenarrabili

che oggi non si possono nemmeno immaginare.


Si può dire che la Romagna, un pezzo

alla volta, strappando la terra al mare

e alle valli, sia stata fatta con le carriole!


Alla fame non potevano neppure pensare,

così come alle zanzare, a tutte le malattie,

loro pensavano alla terra da lavorare


sopportando i signori e le loro angherie.

I romagnoli, non sono mica chiacchiere,

se le sono create da soli queste meraviglie!


E pochi anni fa, quando ci fu da combattere,

per liberare il paese affinché divenisse

più giusto, per farlo uscire dal disastro,


tutte le volte che c’era da nascondersi,

i nostri argini hanno sempre dato una mano,

perché questo popolo potesse rifarsi.


I canti degli scariolanti, quelli del partigiano...

Hai capito ora cosa c’è lì dietro?

Se appoggi l’orecchio, forse in lontananza,


una voce di Libertà la si può ancora ascoltare!

Ma quale mucchio di terra! Questo è un tesoro,

è un monumento, e tu, lo devi capire.


Dentro non ci sono monete d’argento o d’oro,

c’è molto di più, caro il mio giovinetto,

ci risplendono mille e mille gocce di sudore

cadute dalla fronte onesta della povera gente!»





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