sabato 15 settembre 2012

Giovanni Pascoli, grande romagnolo





Ricordo del Poeta nel centenario della morte
di Orazio Pezzi



















Giovanni Pascoli 1855 - 1912

Ricevo e pubblico questo bel ricordo di Giovanni Pascoli, a cura di Orazio Pezzi. Era ed è, quella del Grande Romagnolo, la poesia dei semplici, degli umili e delle piccole cose. Gli echi lontani dei versi che tanto abbiamo amato ai tempi della scuola, ancora ci accompagnano nel lungo cammino della vita. Nel nostro cuore, nel nostro intimo, ne sentiamo tuttora, intatta, quella capacità, unica, di toccarci nei sentimenti più profondi, quelli veri, quelli che contano. Žvanì moriva un secolo fa, ma non si direbbe. La freschezza della sua poesia, sembra parlarci dall’altro ieri, tanto comuni appaiono a volte, in un mondo pur così diverso, circostanze, momenti tristi o felici, sensazioni che ci capita di vivere, o di rivivere, idealmente vicini all’animo di un Poeta e di una Poesia che, io credo, resterà per sempre (a.v.)


Caro  Agide,

Ti avevo accennato la ricorrenza del centenario di Giovanni Pascoli uno dei più grandi della poesia italiana e Ti invio alcune note per ricordare a tutti che era un "romagnolo" e pertanto è bene non passarlo nel dimenticatoio.
Nacque l'ultimo giorno dell'anno 1855 a San Mauro di Romagna, da Ruggero, amministratore di una tenuta dei principi Torlonia, e da Caterina Alloccatelli Vincenzi, quarto di dieci figli.
Ereditò dalla madre «l'abitudine contemplativa, l'attitudine poetica», la sensibilità acuta e vivissima, che dovette mettere ben presto alla prova: nel 1867, ad Urbino, dove studiava nel Collegio degli Scolopi, gli giunse la notizia della morte del Padre, ucciso, mentre rincasava la sera del 10 agosto.
Fu l'inizio delle sventure, che tanto dovevano influire sul suo carattere e sulla sua poesia; la madre infatti « pianse poco più di un anno e poi morì ».
Continuò gli studi a Rimini, poi presso gli Scolopi a Firenze e si licenziò a Cesena nel 1873; vinse l'anno stesso, dopo aver subito l'esame da parte dello stesso Carducci (come egli ricorda in una nota pagina), il sussidio del comune di Bologna ed iniziò con passione e diligenza gli studi universitari.
Ma altri lutti famigliari, che ebbero il loro tragico epilogo con la morte del fratello maggiore Giacomo, e le condizioni difficilissime della famiglia, lo angosciarono e turbarono al punto che, interrotti gli studi, si accostò al movimento dell'Internazionale Socialista; per aver partecipato ad una dimostrazione, venne arrestato e chiuso in carcere per tre mesi. Liberato, avendo in parte acquietato il tumulto interno, riprese con nuovi propositi gli studi, laureandosi nel 1882.
Iniziò la sua carriera di insegnante a Matera, dove tenne la cattedra di latino e greco, passando poi a Massa e Livorno, dove rimase otto anni. Chiamato nel 1895 a Bologna, ad insegnare grammatica greca e latina all'università, vi stette fino al 1898, anno in cui ottenne la cattedra di letteratura latina a Messina; nel 1903 si trasferì a Pisa e nel 1905 fu chiamato ad assumere la cattedra del Carducci a Bologna.
Già da quando era stato chiamato per la prima volta a Bologna, aveva acquistato coi proventi del premio vinto ad Amsterdam per la poesia latina, una casetta a Castelvecchio di Barga, in Lucchesia, che fu da allora, sino alla morte, il suo rifugio, dove ebbe fedele compagna delle sue solitarie giornate la sorella Maria, rimasta con il poeta dopo le nozze dell'altra sorella Ida.
Si spense in una clinica di Bologna nel 1912 e fu sepolto nella cappelletta della sua casa di Castevecchio.
« La sua vita semplice, fino al giorno della morte, non ha altri avvenimenti più importanti di quelli rappresentati dalla pubblicazione dei suoi volumi; per pochi poeti più che per lui è intensamente vero che la loro profonda storia è quella della loro poesia» ( F. Flora).

Dai poemi conviviali alcuni versi per testimoniare la sua grandezza.

Fiumane che passai! voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorio, che resta.

Montagne che varcai ! dopo varcate,
sì grande spazio su di voi non pare,
che maggior prima non lo invidiate.

Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti ! o fiumi ! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:

Il sogno è l'infinita ombra del Vero.


Un caro saluto.  Orazio.

mercoledì 5 settembre 2012

Ma dove son finiti i Brušacùl ?





Una bella poesia e qualche meditazione
di Agide Vandini e Orazio Pezzi




Per noi i Brušacùl sono sempre stati i fiori di camomilla, ma il termine non viene usato allo stesso modo in tutta la Romagna. Il Morri, nel suo Dizionario del 1840 traduceva Brušacùl con Cuscuta europaea, una piantina che, francamente, non ricordo di aver mai notato nei nostri prati. Forse per proprietà analoghe, o, chissà, per l’efficacia nel lenire i bruciori delle parti intime, sta di fatto che il brušacùl per eccellenza, qui è divenuta la camomilla comune, fiore di cui un tempo abbondava ogni fosso o angolo incolto della nostra terra[1].
Proprio per questa ricchezza del territorio, verso la fine degli anni ’50, i figli della Mingóna, Sula e Mistròñ, fecero del Brušacùl e della sua essiccazione e rivendita, un’attività fiorente a Filo, attività che continuò fino agli anni ’70 e che, come si leggerà nella bella poesia dialettale di Orazio, poteva fruire di una diffusa raccolta per mano della gente del paese.
Durante la stagione estiva giungeva così all’aia della Mingóna, sacco dopo sacco, una gran quantità di fiori portati su carretti, o sul cannone della bicicletta, da ragazzi e gente anziana. Sula e Mistròñ pesavano e pagavano i fiori con sommette modeste (ma pur sempre più degli ambulanti) e quei due soldi, all’epoca, facevano assai comodo a tutte le famiglie.
Ricordo bene, peraltro, quanto noi ragazzi fossimo grati all’attività dei Minguzzi per un’altra ragione. L’aia perfettamente liscia di Sula e del Méstar, una volta libera dalle preziose piantine in essiccazione, diveniva il nostro estemporaneo campo da tennis, per quanto assai lontano dalle misure regolamentari. Erano quelli gli anni gloriosi e ruggenti di Pietrangeli e Sirola, campioni che vedevamo trionfare alla Parrocchia, in una delle pochissime TV esistenti in paese. Di lì, per correre fino all’aia di Sula, e sognare ad occhi aperti, bastava appena attraversare la strada...
Cuscuta europaea
Habitat: Cresce nei coltivi, parassita sia di piante suffruticose sia di piante erbacee
Proprietà farmaceutiche: Carminative, digestive, sedative, colagoghe, diuretiche, lassative. Per uso esterno come lenitivo e antinfiammatorio della pelle e delle mucose


Camomilla comune - Matricaria chamomilla
La Matricaria chamomilla, è una pianta erbacea e annuale che si ritrova un po' ovunque d'estate: E’ notoriamente conosciuta per le sue proprietà aromatiche. L'etimologia del nome non è chiara: "matricaria" potrebbe derivare dal latino "mater = madre" o da "matrix = utero". In passato infatti veniva data alle donne partorienti perché pare avesse un'azione benefica sulla loro muscolatura.
Utilizzo: L'infuso dei fiori di camomilla è ritenuto un ottimo calmante dei nervi e favorisce il sonno. Aiuta nei dolori allo stomaco,  dolori mestruali, raffreddore ed influenza. Gli usi e le applicazioni dell’infuso come dell’olio, impacchi, suffumigi e decotti sono comunque i più disparati date le proprietà farmaceutiche ed alimentari.
Ora, invece, in tempi di modernizzazione spinta, per quanto io mi sforzi, di Brušacùl, ahimè, non ne vedo più. Prima di lasciar campo alla lettura dei bei versi di Orazio, allora mi chiedo: che fine avranno fatto? Che siano finiti assieme ai «palloncini che sfuggono di mano ai bambini», come recitava una vecchia canzone di Renato Rascel?[2] E poi ancora: ma i Brušacùl non ci sono proprio più, spariti all’improvviso come i prelibati ciuchẹt, oppure sono ancora fra noi, fanno sempre parte del nostro mondo, ma non li vediamo più, come i brumblẹñ, malghér, canarẹl e tušgòn?[3]


I  Brušacùl
di Orazio Pezzi

I carséva long i fọs e i rivél
Int al stopi e long a i canél
U i avéva sumné e’ veñt
Par fé i purét un pô cunteñt

Alóra u i éra puc quatreñ
E nèca i grend cun i su fiùl
I andéva in žir a brušacùl
Pr i suld d’un pëz ad pañ

I andéva in prisia par la caréra
J  impinéva i su sachét
I j carghéva int e’ carèt
E i j purtéva a Sula int l’éra

Nèca me quèlca vôlta
A sö andê int i fọs dal tër
A impinéva la mi spôrta
E a curéva a vèndar e’ fiór

Pìtal biénc coma e’ lat
Cun la palina žal canareñ
I diš ch’é sia un gran calmènt
Ch’e’ fa durmì lédar e Séñt

Vèh  la natura cus ch’l’à fat
senza che nọñ a j mitèsm al mañ
a spìr sól che i nòstar fiùl
i n’épa da turnê a cójar di’ brušacũl...


I fiori di camomilla
di Orazio Pezzi

Crescevano lungo rive e fossi
Nelle stoppie e lungo i canali
Li aveva seminati il vento
Per accontentare un po’ i poveretti

Al quel tempo c’erano pochi quattrini
Ed anche i grandi coi loro figli
Andavano in giri a raccogliere questi fiori
Per i soldi di un pezzo di pane

Andavano di fretta per la carraia
Riempivano i loro sacchetti
Li caricavano nel carretto
E li portavano a Sula sull’aia

Anch’io qualche volta
Sono andato lungo i fossi della campagna
Riempivo la mia sporta
E correvo a vendere il fiore

Petali bianchi come il latte
Con la pallina giallo canarino
Dicono che sia un gran calmante
Che fa dormire ladri e Santi

Guarda la natura che cosa ha fatto
Senza che noi ci  mettessimo  le mani
Spero soltanto che i nostri figli
Non debbano un giorno tornare a raccoglierli...




[1] Uno dei termini dialettali oggi usati nella Romagna Centrale per definire il fiore di camomilla è quello di Gatapọzla. Va ricordato, in proposito, che lo stesso dizionario ottocentesco del Morri, traduceva la parola «Gattapozzla» con: «Adonide, Camomilla rossa, Occhio del diavolo. Pianta comune fra le biade, e detta da Linn. Adonis aestivalis». Gatapọzla quindi, almeno in origine, non definiva la «Matricaria Chamomilla», ma indicava, ahimè, una piantina ornamentale che, usata in grande quantità, era (ed è) ritenuta assai pericolosa per uomini ed animali. «I sintomi da avvelenamento  in seguito ad ingestione di grandi quantità di adonide - recita wikipedia - includono nausea, salivazione eccessiva, coliche, disturbi gastrointestinali, sintomi cardiaci e respiratori (aritmia, ipertensione, coma e arresto cardiaco)». A questo punto va riconosciuto che l’accezione dialettale più calzante del candido fiore è senz’altro quella, poco fantasiosa ma strattamente scientifica, di «Camumẹla», termine in uso nella Romagna collinare. Tutto sommato però, diciamolo, se proprio si volesse volare di fantasia: meglio Brušacùl di Gatapọzla...

[2] La camomilla è purtroppo considerata, in agricoltura, una piantina infestante. Con l'avvento dei diserbanti è stata quindi debellata nelle grandi colture estensive fino a farla sparire quasi del tutto. La Cuscuta è una ragnatela gialla che si diffonde a chiazze nei medicai, specialmente dopo primavere piovose, ed è piuttosto nota per la sua virulenza. Anche i suoi specifici diserbanti sono talvolta inefficaci, sicché costituisce un parassita molto dannoso all'economia dell'erba medica, così come lo era per quella delle bietole, queste ultime purtroppo sparite dopo la scellerata riforma europea del 2005, approvata col consenso del Ministro Alemanno. Nel nostro dialetto la Cuscuta dai filamenti sottili è chiamata Ragna, mentre il Ragnòñ è quella coi filamenti più grossi (Nota a cura di Marco Vistoli, 15.9.2012 - In calce  si veda analogo e circostanziato commento di Dario Lusa).

[3] I ciuchẹt erano i lischi, pianticelle comuni soprattutto nelle zone di bonifica, ciuffi più pomposamente chiamati «barba di frate» o «barba del negus» che oggi troviamo solo al supermercato. Con gli altri termini si definivano invece alcuni materiali raccogliticci che fungevano per lo più da combustibili per far fuoco sotto il paiolo. I brumblẹñ (o stichlẹñ) erano piccoli rametti avanzati dalla potatura degli alberi; il malghér, altro non era che canna di granoturco [Per approvvigionarsene i più poveri si recavano dai contadini e si offrivano per il taglio delle cime delle piante ancora verdi (operazione che favoriva lo sviluppo delle pannocchie); in cambio ottenevano, a raccolto avvenuto, il diritto di raccogliere il malghér. I fasci di canna (posizionati verticalmente per evitare l’inzuppamento da pioggia) si accatastavano a strati in una Prẹla, in un cumulo, cioè, a forma di cono rovesciato con al centro un palo piantato nel terreno]. I canarel a loro volta erano pezzi di canna di palude o di canapa rinsecchita, mentre i tušgọñ erano semplici e comuni pannocchie di granoturco che, una volta sgranate dai semi di mais, si potevano bruciare anche in casa, nel camino. Questi tušgọñ, nel dopoguerra, ai tempi della mia prima infanzia, si usavano ancora parecchio nei giochi infantili, allorché, uniti in coppia da un rudimentale žóv (giogo) di fildiferro, diventavano, grazie alla nostra infinita immaginazione, buoi da guidare e da trascinare per ore e ore nel cortile polveroso, in una fantastica ed entusiasmante rappresentazione dell’antico lavoro di aratura.