giovedì 6 febbraio 2014

Filo 1944 – Il vile agguato a Mario Babini...



Settant’anni dopo, la memoria di un paese martoriato (4)
di Agide Vandini

Scriveva nei primi anni del dopoguerra Antonio Meluschi[1] riferendosi alla zona di Filo: «Solo dopo i primi morti, e soprattutto dopo l'assassinio da parte dei fascisti di un uomo che tutto aveva dato per la lotta clandestina, Mario Babini, il paese si scosse, si risvegliò. Si poté allora stendere l'attività militare e costituire cioè i primi gruppi partigiani nell'argentano e nel comacchiese»[2].
Ma chi era e come morì Mario, l’uomo, l’animatore politico più importante della storia del paese?



 Mario Babini in età giovanile
Mario Babini, marito della filese Rosina Natali (sorella di Ezio detto Martin e di Vincenzo detto Cencio o Cincióni) nasce a Giovecca di Lugo, da Pio e Tozzi Olimpia, il 25 luglio 1907. Ha quindi appena 15 anni quando, il 5 marzo 1922, lo zio Francesco Babini, meccanico detto Mancina, viene ucciso di botte dai fascisti di Lavezzola.
Ha un buon grado d’istruzione per aver conseguito la “Licenza Tecnica”. Aderisce al nascente Partito Comunista e a 17 anni, nel 1924, è arrestato una prima volta per attività politica. A quel tempo - così racconta nel voluminoso Giovecca, il cugino Angelo Francesco Babini[3] -  Mario diffonde con altri compagni il giornale «L’Unità» che ritira a Sant’Agata e Conselice. Viene catturato, col compagno Vincenzo Giardini, e rinchiuso in una cella dai fascisti che vogliono riempirli di botte, ma i due si difendono da leoni. Sono processati, ma senza apprezzabili conseguenze giudiziarie, tant’è che l’anno successivo, essi sono entrambi impegnati nell’organizzazione del Partito nel basso-lughese e partecipano al Comitato Federale che ha sede a Faenza.

I due decidono di fondare, nella bassa Romagna, la Federazione Giovanile[4]; è in rappresentanza di essa che Mario partecipa nel ’26 al congresso clandestino tenutosi nel biellese; al suo ritorno organizza riunioni fino a Cervia, dove si ferma a dormire nei barconi dei pescatori. La stampa che giunge da Imola viene distribuita proprio da Giovecca e lui ne è il centro motore. La sua casa viene perquisita per una intera giornata, ma non vi si trova nulla; la stampa è ben nascosta in una casa vicina ed insospettata[5].
Adempiuto al servizio militare fra l’aprile del 1927 e il settembre del 1928, Mario giunge a Filo e da lì l’organizzazione antifascista si dilata a Boccaleone, Quartiere, Argenta, Bando e altre località del ferrarese[6]. Nel ’29 Babini ottiene persino una macchina da stampa e questo gli permette di incrementare l’attività di propaganda; a Filo intanto il gruppo di giovani da lui organizzato si dà parecchio da fare: è da qui che l’opposizione al fascismo si irradia sempre più nel ferrarese[7].
L’area geografica di influenza faentina viene divisa in sette zone (Faenza, Bagnara, Massalombarda, Lavezzola, Mezzano, Modigliana, Cervia). Sono ampie zone attraverso le quali la rete cospirativa copre le province di Ravenna, Forlì, Ferrara e parte delle province di Rovigo, Bologna e Firenze. Mario Babini è a capo della quarta zona, quella che, da Lavezzola, copre una grande fetta di Romagna, Conselice compreso, e poi l’argentano, il portuense e tutto il basso ferrarese fino alla provincia di Rovigo[8].
L’intensificarsi dell’attività clandestina porta all’ondata di arresti che, alla fine del 1930, colpisce simultaneamente molti comunisti romagnoli e filesi. I tentacoli dell’OVRA hanno  infatti raggiunto alcune maglie della rete cospirativa dopo che in tutta la Romagna, con bandiere e volantini contrari al regime fascista, viene celebrato, il 7 novembre 1930, l’anniversario della rivoluzione russa[9].
Fra i numerosissimi arrestati, ben 132 componenti della federazione romagnola sono deferiti al Tribunale Speciale (tra questi tutti e sette i capi zona). Sono processati e condannati in 89 che prendono 307 anni e 8 mesi di galera[10]. Fra costoro lo stesso Mario Babini e altri 21 filesi, tutti giovani, fra i quali molti minorenni[11]: undici condannati ed undici assolti. Sfuggono fortunatamente alla polizia interi gruppi e paesi grazie alla strategia di difesa degli arrestati che circoscrivono i danni tacendo altri nomi, assumendosi anche responsabilità altrui.
Mario Babini è condannato a 6 anni di prigione, ma nel novembre del ’32, in occasione del decennale del fascismo, torna a casa e si dà subito alla riorganizzazione.
A Filo, frequenta la casa di Tugnèñ  e della ‘Nitta (Antonio Natali e Domenica Brusi). Scriverà Libero Ricci Maccarini[12] che Mario viene «coinvolto da quella specie di benevolenza ospitale che coglieva un po’ tutti, al momento di salire quella gran scala esterna, entrare ed essere piacevolmente intrattenuti da chi della famiglia era presente». Lì, in quel fitto caseggiato abbattuto nel dopoguerra (oggi piazza e parco G. Bellini), in quell’ampio stanzone ordinatamente stipato di letti ed armadio, di tavolo e sedie, di attrezzi da lavoro ed ogni altra cosa necessaria alla famiglia, avviene l’incontro di Mario coi due vecchi antifascisti e coi figli Rosina, Vincenzo (Cencio, allora un ragazzo) ed Ezio il geniale Martìn che purtroppo morirà di tisi, a 28 anni, nel 1936.
Ezio si adopera come uomo di collegamento[13]; Mario si ritrova sempre più in una famiglia ove nascono vincoli d’affetto e d’amore. A metà degli anni ’30 la Rosina diventa sua moglie e lui si persuade dell’opportunità di risiedere a Filo.





Mario Babini, il figlio Ezio, la moglie Rosina Natali al confino a Filadelfia di Catanzaro.
Qui tiene mille contatti, diffonde stampa un po’ ovunque, alle sue riunioni partecipa spesso Giovanni Matulli (Gianêl), uno degli arrestati del ’30  che poi, nel ’44, finirà anch’esso nel mirino delle Brigate Nere. Mario partecipa a congressi importanti, anche all’estero, esattamente a Bruxelles il 12 e 13 ottobre del 1935 in tempi di guerra d’Africa[14]. La moglie Rosina Natali gli dà un figlio che decidono di chiamare Ezio, come il povero Martìn.
Il mondo è già in subbuglio. In Spagna (1936) ci si giocano ormai i destini d’Europa in una guerra che le forze più reazionarie e spericolate scatenano contro il governo legittimo e democratico; lui corre ovunque a raccogliere fondi per i combattenti spagnoli. A Filo tiene diverse riunioni presso Tarozzi Irpio, i Fratelli Zotti, il fornaio Giacomo Rossi (Iàcum) ed altri.
Nel dicembre del ’36 Mario Babini viene nuovamente arrestato e, il 6 febbraio del ’37, condannato a 5 anni di confino «perché sospetto di aver fatto propaganda a Lavezzola per la raccolta di fondi per comunisti spagnoli».
Viene spedito con la famigliola alle Isole Tremiti, dove sconta due anni e il resto della pena in altre tre località del catanzarese: a Filadelfia (lì, l’11 giugno del ’41, all’età di soli 5 anni  muore, per scarsità di cure, il figlioletto Ezio), Cortale e Cardinala[15].

Scontati i 5 anni, Mario termina la pena nel gennaio del 1942; lascia il confino e torna in Romagna. L’Italia da poco più di un anno è entrata in guerra a fianco della Germania, una guerra insensata, ispirata e voluta dalle folli ideologie e dalla sete di dominio del Fuhrer. La belva nazi-fascista ha scatenato un conflitto che coinvolge tutti i continenti. E’ una immane, quotidiana carneficina ove chi ha la peggio è come sempre la gente comune e il ceto più debole. Mario continua a dirigere la sua lotta clandestina in mezzo alla gente[16].




Da uomo libero ora si sposta ovunque, in particolare nei luoghi a lui familiari del basso-lughese. Lavora come radioriparatore per la ditta del Cav. Acquistapace di Ravenna. Nasce nel settembre del ‘42 la figlioletta Clara, che però muore ancora in fasce, all’età di appena due mesi (3-11-1942).
Come molti altri filesi non più giovanissimi viene richiamato alle armi; torna ad indossare la divisa dal dicembre del 1942 al giugno del ’43.

 A fianco: 1943. Mario Babini, penultimo a destra con un gruppo di commilitoni. Nell’ultimo a destra si riconosce facilmente il filese Nello Bonora.

Il 2 maggio del 1943, mentre è a casa in licenza, viene arrestato ancora una volta assieme ad altri compagni, e portato a Ravenna. A lungo incatenato e interrogato, rimane in prigione 13 giorni e poi rilasciato[17].
Due mesi dopo, il 25 luglio 1943 in un’Italia militarmente alle corde, cadono il Fascismo e il suo Duce. A capo del Governo il Re incarica il Maresciallo Badoglio. Le tante umiliazioni subite nel ventennio sfociano in spontanee manifestazioni di giubilo che, nella bassa Romagna e nell’argentano, le zone dirette da Babini, avvengono un po’ ovunque. Un vecchio camioncino proveniente da Conselice fa il giro dell’argentano al canto di Bandiera Rossa. Vengono occupate le Case del fascio e sottratte, qui come ovunque, divise e simboli nelle case delle più note camicie nere, accesi improvvisati falò, portati via manganelli ancora sporchi di sangue[18].
Mario, ci racconta ancora Libero Ricci M., da uomo di singolare intelligenza associata a bontà d’animo addirittura fanciullesca, è incline alla moderazione e, in una riunione tenuta con gli ex gerarchi in un’aula delle scuole, riesce ad affrontare ed orientare animi assai diversamente disposti; fa prevalere il perdono da accordarsi ai promotori ed esecutori di tante malefatte, «traducendo in senso positivo, almeno in quel momento, quei fermenti popolari che propendevano per soluzioni di ben altra natura»[19].
Badoglio non riesce però a tenere in pugno la situazione militare. Chiede maldestramente altre divisioni alla Germania sul suolo italiano, mentre tratta con gli alleati e firma con questi ultimi l’armistizio dell’8 settembre 1943. L’esercito italiano senza ordini chiari e precisi svanisce in poche ore; a nord della linea del fronte militare, le divisioni tedesche spadroneggiano e catturano, a migliaia e migliaia, i soldati italiani che tentano di tornare alle loro case. Mussolini viene liberato dalla prigione sul Gran Sasso dalle forze del Fuhrer e da lui messo a capo della «repubblichina», un governo e un regime fantoccio al servizio perciò delle armate germaniche che si impegna a combattere, in una lotta senza esclusione di colpi, quegli italiani che «non ci stanno».
Poco a poco, mentre gli Alleati purtroppo bloccano l’avanzata, il Re (fuggito a Brindisi) mette il suo Regno nelle mani del figlio Umberto II; questi costituisce la Brigata Cremona e con essa affianca gli Anglo-Americani nella guerra ai nazi-fascisti. Col fronte che staziona lungo la linea Gustav per mesi, nell’Italia occupata dalle forze dell’Asse si formano, fin dall’autunno del 1943, soprattutto in montagna, gruppi di giovani decisi a battersi e fra essi molti renitenti alla leva che non vogliono sottomettersi ai repubblichini. E’ la ribellione spontanea, è il Secondo Risorgimento d’Italia, è la Resistenza che si allarga e si fa strada.
Mario, come sempre si dedica al lavoro organizzativo di tessitura; sorgono nelle zone da lui dirette, in particolare nelle Valli di Campotto, i primi Gruppi di Azione Partigiana. Nei primi mesi del ’44 una prima pattuglia di filesi si unisce alla «Bianconcini» che opera in Appennino. Altri se ne aggiungeranno più tardi.

Gruppi di partigiani armati [così testimonia il filese Giovanni Pulini nel suo memoriale] si erano già costituiti e agivano soprattutto nelle colline vicine. La situazione si andava facendo sempre più drammatica. Gli Alleati continuavano a scaricare bombe sui centri abitati, mitragliavano tutto ciò che per strada si muoveva, quasi sempre si trattava di civili: barrocciai o gente in bicicletta. In questo clima gli oppositori, che non avevano mai smesso di essere tali, cominciarono ad organizzare riunioni e ad una di queste partecipai anch'io. Si tenne a casa di Babini  e così ebbi modo di sentire parlare quell'uomo. Parlava lentissimo, con un tono di voce appena percettibile, aveva la sottigliezza da grande filosofo, ma la freddezza di un condottiero. L'ordine del giorno era l'organizzazione dei giovani in caso di reclutamento. Si dovevano convogliare nelle bande partigiane che operavano nelle colline. Dopo un'ampia esposizione politica di Babini, in cui spiegò le ragioni politiche di dette bande, si passò al problema centrale della riunione. Dopo qualche scambio di battute e di idee fra i partecipanti, otto o dieci in tutto, tutti giovani ed io ero il più giovane di loro, Babini fece la relazione di chiusura. Egli disse che c'erano problemi per il vettovagliamento, fatto non trascurabile in quanto si prevedeva una lotta ancora lunga, era meglio quindi rimandare ogni decisione a tempo opportuno, ma bisognava tenersi in contatto in caso di necessità. La discussione ebbe termine[20].

Nella bassa, antifascisti e camicie nere si scambiano ormai colpi durissimi; i repubblichini, sull’onda dell’illusoria strategia del “pugno duro” puntano all’eliminazione fisica delle figure più carismatiche, sperano di decapitare il movimento di Resistenza e di fiaccarne il morale, ma per ogni vigliaccata portata a termine, la partecipazione di massa si fa più intensa e via via più convinta in ogni angolo del territorio. Cade a Filo, come si è già raccontato Agida Cavalli (29 febbraio 1944) che salva di fatto la vita al figlio, l’antifascista Vandini Guerriero (Ghéo), e al di lui compagno Matulli Giovanni (Gianêl).

Per  evitare a Mario «la continua ossessione della vigilanza» [ci racconta Libero R.M.], si ritenne opportuno attenuarne gli effetti, favorendone lo spostamento temporaneo a Giovecca di Lugo presso i suoi genitori. Però le cose sarebbero andate troppo lisce, se tutto fosse stato risolto con il ritorno alla casa paterna. Infatti, il 6 maggio 1944, tornando da Lugo, dove lavorava quale radiotecnico, Mario si accorse di essere stato seguito da un gruppetto di persone armate, fra le quali poté riconoscere la tronfia figura di “un pezzo grosso” argentano che, pure, gli doveva riconoscenza del generoso perdono accordatogli pubblicamente, al tempo di Badoglio.
Pur forse non volendo credere alla gravità di quanto sarebbe accaduto, Mario comprese che la presenza di quel gruppo di fascisti in armi presentava tutti gli aspetti di una spedizione punitiva, e nell’intento di sottrarsi a quella minacciosa imboscata, cercò riparo oltre il cancelletto che portava al cortile di casa. Però qualcuno degli armati non esitò ed una scarica di colpi l’investì, abbattendolo al suolo, proprio quando stava per trovare protezione dentro casa[21].

Finiva così l’esistenza e l’attività politica di Mario Babini.

Mario Babini (1907-1944)
Chi fu l’uomo e il dirigente, per i suoi paesani e conterranei, lo si capisce in particolare scorrendo le accorate testimonianze contenute in Giovecca di A.F. Babini.  Colpisce l’affetto e la stima incondizionata dei tanti che, in ogni parte della sua terra, hanno avuto a che fare con lui e ne hanno apprezzato il coraggio, l’intelligenza, le capacità organizzative, la dedizione senza pari alla causa della Libertà e della Democrazia. Scarne ma toccanti sono le semplici parole di certo Ballardini Ennio: «Mario non era molto loquace, ma quando parlava era oro colato, era ascoltatissimo e l’adoravamo…». Nel testo appena citato sono presenti anche crude testimonianze sull’uccisione di Mario davanti alla casa paterna:

Quando uccisero Mario, il fascista Dalla Fina[22] di Argenta disse ad un altro fascista, un certo Schicchio di Boccaleone: «Non lo conosci? E’ un membro del partito comunista» [Delfa Faccani]. E Mario, al Dalla Fina: «Io sono quel che sono e quel che sono resto»
Senza neanche guardare i documenti di Mario un fascista disse: «Spara che è lui» [Lorenzo Babini].
E quando gli ebbero sparato Lorenzo andò per sorreggerlo e Mario: «Questa volta mi hanno preso» disse e i fascisti picchiarono coi calci delle pistole Lorenzo, zio di Mario, per allontanarlo, e spararono in testa a Mario[23].

La medaglia d’argento a Mario Babini[24]:

Capitano BABINI Mario, Ispettore con incarichi organizzativi classe 1907, residente a Filo d’Argenta […]
Ispettore di Brigata, ardente propagatore della lotta partigiana fin dai primi giorni dell’oppressione nazi - fascista. Organizzò i primi gruppi armati, li comandò in importanti missioni ed azioni contro il tedesco invasore portandole a termine con successo. Come membro del comando partecipò con rara competenza all’elaborazione dei piani organizzativi ed operativi dei vari settori della Brigata. Portò inoltre a termine con esito brillante tutti i delicati incarichi a lui affidati. Malgrado i sospetti che si addensavano sopra di Lui per le multiformi attività svolte, persisté con immutato slancio e sprezzo del pericolo nella dura lotta; finché scoperto, venne affrontato dagli sgherri fascisti dinanzi alla propria casa ed ivi trucidato per avere opposto un fiero e deciso rifiuto alla intimidazione di abbandonare la lotta. Giovecca di Lugo (RA), 6 Maggio 1944.
Attestazione del 22 Aprile 1946 firmata da Vandini Guerriero, all’epoca segretario della sezione di Filo d’Argenta del PCI
 cui fu dato il nome glorioso di Mario Babini

Del vile assassinio di Mario Babini, Renata Viganò fece un racconto emozionante:



LA MORTE DI MARIO
Brani da: Il ritratto di Garibaldi di Renata Viganò


Mario salì in bicicletta e salutò un compagno sul ponte.
[...]Mario fermò i pedali, andò giù rapido in discesa frusciando sui copertoni frusti.
La strada si era fatta grigia e deserta, lui guardava il colore dell'asfalto, lo riconosceva per averlo percorso tante volte, come il pavimento della sua stanza.
Pensava intanto alla giornata dura che aveva passato, piena di rischi per il lavoro clandestino, alle tante altre giornate dure che dovevano passare prima che gli angloamericani proseguendo su per l'Italia arrivassero alle province del nord occupate dai tedeschi e dai fascisti. Si trovò a canticchiare sul ritmo della pedalata: - Vanno piano piano, chissà quando li vedremo -. Così distratto, all'improvviso, vide a destra il muro di casa, frenò, mise un piede a terra.
E proprio in quel punto lo colse un lampo e un rumore, e il pensiero gli si spense. Cadde in avanti con le braccia tese, scaraventò per l'urto la bicicletta quasi in mezzo alla strada. Rimase lì, immoto, con la faccia presso il gradino della sua porta. Un momento di silenzio, pesante come il piombo. Poi dalla casa uscirono uomini e donne; una di esse alzò un urlo acutissimo che si perdette nell'eco, gli altri correvano piangendo, gridando, ma la strada si riempì di armati, visi rigidi, mani pronte sul mitra, e subito ricacciarono indietro il gruppo,...
La morte di Mario era stata decretata ed eseguita «per l'esempio»[...]
Mario non era soltanto un uomo giovane, buono, amato dalla famiglia, ma un capo, un dirigente della lotta antifascista, il maggior capo e dirigente di quella zona di valle dove si stava creando una formazione garibaldina.
[...]Mario era lì nella bara, sollevata da parte della testa : lo stomaco e l'addome erano gonfi e tesi, la faccia sembrava più piccola, bruna, con gli occhi chiusi dalle ciglia scure. Pareva come nelle ore più ardenti, quando parlava ai compagni nelle riunioni, in quattro, cinque, sei, raccolti in una stalla, o seduti alla proda di un fosso. Nel discorso appassionato talvolta chiudeva gli occhi, cercava la parola dentro di sé, trovava la maniera di esprimersi perché gli altri ne fossero persuasi.
Ora era silenzioso, immobile[...] disse Brando: «Ci sono i partigiani della valle»[...]«Faremo una brigata garibaldina, e si chiamerà col nome di Mario». «La nostra brigata si chiamerà col nome di Mario - continuò con voce uguale, quasi monotona - Sarà il più bel modo per ricordarci come l'hanno ammazzato e per seguitare quel che voleva lui».







La lapide davanti alla sua casa di Giovecca.
Su la «Nuova Scintilla» di Ferrara del 5 maggio 1946 si legge:
«[…] Mario Babini, figura esemplare, semplice, onesto, predicò a tutti il bene, sacrificò se stesso nei lunghi anni di oppressione fascista nelle carceri, al confino, calmo, sereno, perché sapeva che ogni suo sacrificio era un passo verso la libertà, verso il benessere dell’umanità intera. E gli anni di carcere e di confino che duramente ha dovuto scontare non sono valsi a domare la sua fede, ma bensì per ingigantirla, per farla più forte […]»

Il nostro paese di Filo, dopo avergli intitolato la locale sezione del PCI, nel dopoguerra gli dedicò, per onorarne la figura indelebile, una via al Borgo Molino.
Babini rimane tuttora, e sarà sempre, nel cuore di questo paese che ha avuto l’onorato e l’orgoglio della sua fattiva presenza, della sua opera ed insegnamento. Ora Mario brilla e risplende, con straordinaria lucentezza, fra le 18 stelle d’argento che danno lustro alla bandiera tricolore dell’ANPI di Filo: è uno dei nostri tanti, troppi eroi, uno dei 18 Martiri della Libertà di cui andiamo fieri e verso cui sentiamo ancora, dal più profondo di noi stessi, come filesi e come italiani, infinita ed ammirata riconoscenza.


La tomba di San Bernardino di Lugo



Vittime del Fascismo, voi siete con noi, nel nostro cammino, nel nostro cuore, nel nostro sangue. Figli, fratelli, padri, caduti nell’aspra lotta, per il conteso diritto alla vita, noi vi promettiamo, di renderci di voi degni, e con l’opra diuturna, e col sacrificio di nostra vita, non sarà lungi il giorno, in cui il vostro martirio, rechi il suo frutto.












Il conferimento della medaglia d’argento

Ringrazio di cuore Agnese Brunelli, nipote di Vincenzo Natali, per le amorevoli ricerche compiute,
nonché per i preziosi documenti e ricordi di Rosina Natali da lei messi gentilmente a disposizione.                                                                                                                     (4/5 – continua)


[1] Ad Antonio Meluschi (Il Dottore), poi scrittore di vaglia, fu affidato nell’autunno del ‘44  il comando partigiano di tutta l’area a sud delle Valli di Comacchio e a nord del Reno, ossia della Brigata Garibaldi 35ma bis. Visse negli ultimi sei mesi di guerra al Molino di Filo, con la moglie Renata Viganò, autrice de’ L’agnese va a morire, partigiana e infermiera. Da lì diressero il movimento di Resistenza.
[2] A.Meluschi, Epopea Partigiana, 1947 .
[3] A.F.Babini, Giovecca, Bologna, Graficoop, 1980,  p.185.
[4] Ibidem, p.186.
[5] Ibidem, p.187-188.
[6] Ibidem, p.191. Nel testo viene anche riportato (p.278) uno scritto di Vandini Guerriero del 26 giugno 1945 in cui si confermano gli aspetti organizzativi e i nomi degli attivisti, tutti arrestati nel ’30.
[7] «La stampa ci veniva dalla Romagna» dice Bruno Natali di Filo. «Da Giovecca la stampa ripartiva e finiva come prima tappa, per il ravennate, a Voltana da Milio e Lino Giugni e, per il ferrarese, a Filo d’Argenta da dove, un balzo fino a Boccaleone, lo facevano fare Bruno Natali e Guerriero Vandini».  Ibidem, p.196 e 208.
[8] Ibidem, p.212. «Questi sette capi zona formavano il comitato federale. Ogni zona era formata da sette settori, i sette capi settori formavano il comitato di zona. Ogni settore era formato da più gruppi di 5 cellule l’uno. Ogni cinque capi cellula uno era scelto come fiduciario. Un gruppo di più fiduciari costituiva un comitato di settore. Le cellule si classificavano in cellule di strada e cellule sul posto di lavoro ed erano formate ognuna da 4 o 5 persone, una di esse era il capo cellula (Ibidem, pp.210).
[9] «Ai primi di novembre del 1930 il gruppo dei comunisti di Filo riceve un'enorme quantità di volantini che inneggiano all'Unione Sovietica e contemporaneamente denunciano alla popolazione la politica del fascismo. La distribuzione avviene durante la notte del 6 novembre : tutto il gruppo di Filo si mobilita e attraverso collegamenti perfetti il materiale raggiunge i vicini comuni, fino in provincia di Rovigo. Questa del 7 novembre 1930 rappresenta la più grande manifestazione del periodo clandestino effettuata in provincia di Ferrara. L'episodio esula dal contesto locale e assume proporzioni notevolissime anche se la stampa del regime preferisce ignorare quanto è avvenuto. Sui pioppi che fanno da contorno alle grandi proprietà sventola per alcune ore la bandiera rossa, mentre centinaia di volantini sono sparsi dappertutto. La reazione dei fascisti è rabbiosa: in alcune aziende non viene corrisposto il salario ad alcuni braccianti che stavano commentando il contenuto di un volantino. Verso la metà di novembre la polizia politica si impossessa dei grafici che delimitano le sette zone di influenza del “Comitato Federale” faentino del PCI» (V.Toti, Antifascismo e Resistenza nell'Argentano, Tesi di Laurea, pp. 51-52)
[10] A.F.Babini, op.cit.,  p.212.
[11] Si veda il precedente articolo «Un paese da bastonare» (2).
[12] L.Ricci Maccarini, Il palazzone, Argenta, C.S.O. 1983, pp. 41-42.
[13] A.F.Babini, op.cit., p. 217.
[14] Ibidem, p. 221 e 224.
[15] Ibidem, p. 228 e 229.
[16] Ibidem, p. 237.
[17] Ibidem, p. 240.
[18] Ibidem, p. 243-245.
[19] L.Ricci Maccarini, op.cit., p. 42.
[20] E’ la prima volta, egli dice, in cui sente parlare Babini (G. Pulini, Non buttare i ricordi, «I Repubblicani di Salò», 1992, pp. 49-50).
[21] L.Ricci Maccarini, op.cit., pp. 42-43.
[22] Circa la triste e truce figura di Enrico Dalla Fina (1905-1945), argentano e segretario del fascio a Filo, raccomando la lettura del paragrafo a lui dedicato da Egidio Checcoli in Filo della memoria, Prato, Ed. Consumatori, 2002, pp.112-113.
[23] A.F.Babini, op.cit.,  p. 281.
[24] Ferrara partigiana, Albo d’oro, a cura dell’ANPI Provinciale, p. 107.

2 commenti:

Filese ha detto...

Ricevo e pubblico col consenso del mittente:

aderitto geminiani
12:50 (7 ore fa)

a me
Carissimo Agide,
ho letto con grande trasporto il 4' episodio della tua splendida esposizione, degli episodi che hanno segnato cosi' profondamente una intera comunita'.Non sapevo nulla o quasi di quello che tu hai descritto e per me e' stata una novita' assoluta .Fai una descrizione cosi' meticolosa e particolareggiata che mi ha lasciato per un bel po' sbigottito, oserei dire senza parole. Sono rimasto un bel po' in silenzio, la mia mente ha vagato con mille pensieri e dentro di me ha lasciato quasi un certo smarrimento, tanto e' stato il mio stupore. Innanzi tutto mi complimento con te per la grande mole di lavoro che hai fatto e per la straordinaria trasposizione degli eventi a volte toccanti al punto da restare di sasso. Sono documenti e testimonianze che e' bello leggere. Il capitolo dedica gran parte al martire Mario Babini e ti confesso che non sapevo molto di lui.Tu mi hai illuminato e te ne sono grato, ma anche altri meritano tutta la mia ammirazione per abnegazione e coraggio che tu cosi' sapientemente hai ricordato. Mi hai fatto venire in mente un particolare: mia zia Giuliana moglie di Bugiu' (portiere del Filo calcio anni ’50) ,mi disse se volevo lavorare a Bologna presso un certo Cremonini che richiedeva patente. Ebbene non mi dilungo: egli era di Conselice e sapendomi di Filo, mi assunse all'istante. Diventammo grandi amici nonostante la differenza di eta' e di rango. Mi racconto' che lui a Conselice aveva contribuito a fondare il partito Comunista, che a Filo e alla Giovecca c’erano i punti fermi della nuova linea Marxista e che dopo la caduta del Fascismo col camioncino ando' in giro per Argenta e per tutti i paesi limitrofi a manifestare. Arrivo in fabbrica una mattina, mi viene incontro, mi porge un giornale, io apro la prima pagina de l'Unità che riporta a caratteri cubitali: Filo PERCHE' SEMPRE PRIMO !!!!????. Mi abbraccio' e si commosse. Non ricordo bene il contenuto, mi sembra il direttore Giancarlo Paietta, ma ripeto non ricordo neanche gli anni. Questi, Agide caro, siamo stati noi di Filo, e perdonami il noi, cioe' io.
Un saluto ed un caro abbraccio. Ti ringrazio Agide .
Pippi

Agide Vandini agide.vandini@gmail.com
13:57 (5 ore fa)

a aderitto
Grazie Pippi carissimo,
grazie per l'attenzione e per gli apprezzamenti espressi. Mi piacerebbe pubblicare anche questo bel commento sul blog. Sempre che tu sia d'accordo.
C'era un vuoto, un'aria di dimenticanza intorno a quest'uomo così importante per la storia di una comunità come quella di Filo. Col passare delle generazioni e con la perdita di coloro che quella storia la vissero da vicino, si è data tanta importanza a ciò che è avvenuto nel dopoguerra, nel partito, nel sindacato, nelle cooperative, fino al punto che avvenimenti e personaggi così significativi sono stati per forza di cose parzialmente rimossi nella memoria collettiva. Una memoria che a me è sembrata quasi assopita. Sapevo come e quanto ne parlavano, di Babini, i dirigenti della generazione di mio padre e ho cercato di rimediare ricostruendo una precisa biografia che ne approfondisse anche i tratti umani.
E' un lavoro che quest'uomo così coraggioso meritava.
Ciao.
Agi.

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Ringrazio di cuore i tanti che mi hanno scritto apprezzando il lavoro compiuto e fra questi gli amici Mario Ravaglia e Romano Saccani.

PIETRO ALBONETTI ha detto...

Ho cercato un poco (e un poco ho scritto) intorno a fatti di Giovecca tra 1944- 1945 e postumi processuali. Forse è possibile scriverne ormai senza reticenze. O no ! Pietro Albonetti