mercoledì 12 febbraio 2014

Filo 1944 – L’eccidio dei dieci ostaggi...



Settant’anni dopo, la memoria di un paese martoriato (5)
di Agide Vandini





Come già si è ricordato, il fronte di guerra rimasto fermo per molti mesi lungo la Linea Gustav (Cassino-Termoli), prese a risalire la penisola nel maggio del ‘44[1]. In poche settimane, si veda la cartina illustrativa a fianco, gli Alleati avanzarono oltre la linea Hitler (Anzio-Pescara), liberarono Roma, Firenze e il centro Italia fino ad attestarsi, nel settembre del ’44, lungo la cosiddetta linea Gotica, dal Mar Ligure all’Adriatico, da Carrara a Pesaro, davanti allo sbarramento difensivo nel frattempo fortificato dai tedeschi.
E’ questa appena descritta la situazione militare nei giorni dell’Eccidio di Filo dell’8 settembre del 1944. Il fronte di guerra in quei momenti è dunque ancora lontano.


I primi gruppi partigiani sono già stati formati. Gli sbandati e soprattutto i renitenti alla leva nascosti nelle terre di granturco e nei pagliai, si sono ormai rifugiati nelle case contadine a ridosso delle valli, nei terreni che i tedeschi hanno allagato facendo saltare gli argini della bonifica allo scopo di rallentare l’avanzata nemica. Essi hanno interrato allo stesso tempo mine un po’ ovunque nelle campagne rimaste, lungo la striscia di terra emersa a sinistra del Reno, quella che gli Alleati definiscono l’Argenta Gap, ossia la stretta di Argenta.
Scrive nel dopoguerra, a proposito della vita precaria degli sbandati e dei combattenti, Antonio Meluschi, Comandante della Brigata Garibaldi 35° bis,  che dalle Valli di Campotto era giunto a Filo, assieme alla moglie Renata Viganò, verso la fine di ottobre del ’44:

«[…] Le valli erano il sicuro rifugio dei ricercati delle S.S. e delle brigate nere, la gente s’annidava nei freddi ed umidi «casoni» delle guardie vallive, e imparava a pescare le anguille, a vivere soltanto di esse, che qui, molte volte, prendono il posto del pane. Vita dura, disancorata dalla civiltà. Erano compagnie scarsamente armate, al principio scalze, denutrite: era gente d’ogni paese, provincia, regione; e si raccolsero prigionieri russi, cecoslovacchi, inglesi, americani, canadesi, disertori austriaci, tedeschi […]»[2].

Per ricostruire le ore convulse dell’eccidio di Filo possiamo contare su di una testimonianza preziosa, quella di Libero Ricci Maccarini, dirigente politico filese del dopoguerra, membro del locale CLN, che poi si trasferì con la famiglia ad Argenta negli anni ’50. Egli la interpose all’interno di una sua raccolta di memorie cui diede il titolo «Dal Palazzone» (pubblicata nel 1983). Lo scritto è in uno stile ricercato e un po’ contorto, ma la seconda delle quattro parti in cui si articola il racconto, è oggi per noi di notevole valore. Egli ci narra in tutti i particolari quel che vide e come visse la serata del 7 settembre 1944, nell’ora e nel luogo in cui l’azione partigiana provocò la morte del soldato tedesco.
Ho provveduto qui ad una opportuna trascrizione, ho cercato di facilitare il lettore fornendo un titolo ad ognuna delle quattro parti, ho ritoccato un pochino la punteggiatura e tolto un paio di marginali imprecisioni. Il mio contributo, costituito da testimonianze e notizie complementari l’ho riportato nelle note di fondo pagina. Deco ringraziare Beniamino Carlotti per alcuni dati, mia sorella Carla che mi ha assistito e Vanni Geminiani che mi ha fornito alcune preziose testimonianze da lui raccolte.
Non mi è parso giusto invece addentrarmi in giudizi o ricostruzioni arbitrarie sulla dinamica del fatto, né fare ipotesi sugli autori dell’azione partigiana che, sfociata nel sangue, scatenò la rappresaglia nazi-fascista. Fu, è risaputo, un’incursione in paese improvvisata, dalle motivazioni e contorni poco chiari, scoordinata in sé e oltre tutto avvenuta, come testimonia lo stesso Libero, all’insaputa del locale Comitato di Liberazione. La reazione degli occupanti nazifascisti all’accaduto fu, lo sappiamo, rabbiosa, bestiale, vendicativa, feroce.
«Fu un lutto immenso - scrisse Antonio Meluschi nell’immediato dopoguerra - che lasciò sul paese di Filo, un peso di perenne cordoglio e di lacrime […]» Dieci persone furono trucidate e «[…] fra esse elementi provati e capaci della lotta clandestina. Ma il duro tessuto della Resistenza fu subito riparato e Filo continuò la sua guerra, piangendo i suoi caduti ed odiando più a fondo gli oppressori […]». 

°°°
«Li hanno ammazzati! Ne hanno ammazzato dieci…      »
 Libero Ricci Maccarini, Dal Palazzone, Argenta, Centro Offset, 1983, pp.45-52

[I – La notizia]
Finiva l’estate e il caldo si attenuava sulle piane incolte, sul fogliame delle bietole non estratte, al cui raccolto si era rinun­ciato, poiché gli zuccherifici erano chiusi e perché nessuno azzardava tirare fuori l’automezzo od il carro ed esporsi ai mitragliamenti degli aerei alleati.
Le truppe tedesche erano partite lasciando sul posto un sottufficiale e due soldati, forse per rimettere ad altri le consegne dell’avvicendamento, mentre nella caserma, abbandona­ta dai carabinieri, un presidio fascista, stanco e dimesso, sta­va per seguire la sorte dei predecessori.
Dalla larga bonifica, appena punteggiata dalle casupole della Mafalda e di Noro, nonché da quelle dei pochi che, per primi, avevano supposto che un giorno in quella piana, una volta dissalata, si sarebbe vissuto; dai casolari isolati e fuori mano, tornavano alle loro case gli sbandati e i combattenti, fino allora ossessionati dai rastrellamenti e dagli scontri allo scoperto, da cui non vi era salvezza. Correva in tutti l’illusione che la stretta si fosse un po’ al­lentata, fino a trarne l’impressione che la mania di persecuzione del paese stesse per finire.
A tanto riportava il piacere di riavere una casa, una ma­dre, una moglie: l’innaturale e pur trepida evasione, sembra­va volesse respirare un momento di quiete. Così, avvinti da quella specie di benevola incoscienza, nel senso del vuoto che previene le vicende immani, si attese il volgere lento degli eventi, nella piacevolezza di quella tarda estate e nella lusinga del fronte che arrivava. Nessuno ormai pensava che il terrore tedesco si potesse ap­prestare a cancellare quei giorni di speranza, nel tempo di una notte convulsamente vissuta, fino a precipitare nella tra­gedia del pomeriggio che sopravveniva.
È già il pomeriggio dell’otto settembre 1944. In tanti, alla “Pecorara”, trepidavamo, ansiosi di sapere cosa sarebbe accaduto[3]. Poi, là, sul sentiero che porta al Molino, controsole, si intravvide l’incerta figura di una donna pedalare scompostamente e vociare, finché, più vicina, vedemmo ch’era la Pina[4] e ne udimmo il disperante urlare: «Li hanno ammazzati! Ne hanno ammazzato dieci...»
Le corremmo incontro, quasi al limite della corte; lei si buttò dalla sella, disperata ed ansante, in ginocchio, si mise a strappare l’erba e a levare le braccia al cielo, in un inconscio dimenare di gesti e, ancora, affannata ad urlare: «Ne hanno ammazzato dieci! Ne hanno ammazzato dieci…». Poi, riversa sul prato, si sciolse a piangere con noi, e noi con lei a piangere ed imprecare.
Cos’era accaduto dalla sera prima, fino a quel momento?

[II – La testimonianza diretta][5]
Era la sera di un giovedì di settembre, del sette settembre 1944; una sera calda, buia e calma. Il paese era abbastanza quieto, a partenza avvenuta di una brigata tedesca, che quale contrassegno recava tre dischi ros­si su un fondale bianco: la Scheffering. Due militari ed un sottufficiale erano rimasti soli, quali ul­tima rappresentanza di quel presidio, ed avevano alloggio a Case Selvatiche, nella residenza estiva di un possidente, ad un chilometro dal centro di Filo[6], mentre il nucleo di polizia fascista, che aveva sostituito i carabinieri proprio al mattino, aveva abbandonato la locale caserma, evitando di consegna­re le armi ai partigiani, sebbene un accordo in tale senso fos­se stato prima raggiunto.
In una camera sovrapposta all’unica osteria ancora in eser­cizio era riunito il CLN, con il compito di estendere un memoriale che tratteggiasse le biografie degli elementi più faziosi che poi dovevano essere seguiti nell’attività futura, se­condo una disposizione del nostro Comando[7]. Il luogo era sicuro, poiché in quel locale pubblico, fre­quentato anche da tedeschi e fascisti, nessuno avrebbe sup­posto che, proprio lì, si potesse operare per la Resistenza.
Ancora prima che la riunione si sciogliesse, Giovanni[8] dis­se: «Quei ragazzi dovevano venire in paese per disarmare la polizia fascista, ma siccome i militi sono partiti sarà bene av­vertirli di non compiere un’azione inutile». Furono tutti d’accordo. Giovanni stesso partì e dopo poco tempo tornò per informare che i “ragazzi”, visto che le cose in paese erano cambiate, avevano deciso di recarsi alla Fiorana, dove pensavano di disarmare un capitano della milizia che, a casa di un pa­rente, non faceva mistero di volersi disimpegnare degli obbli­ghi di mobilitazione e delle armi[9].
La riunione si sciolse così, senza alcunché di rilevante. Uscirono alla spicciolata, senza noie, e lui si fermò poi con Gigi ed Alfonso[10] a conversare nell’osteria. Notarono subito che non vi erano solo i tre tedeschi della cui presenza si sapeva, ma vi erano pure un maresciallo ed al­tri cinque o sei militari. Considerarono che quello non fosse il luogo più adatto per parlare liberamente ed uscirono, trattenendosi per la strada fin verso le nove e mezza.
Vale pure la pena ricordare che nella prima serata fino all’atto dell’inizio della conversazione fra i tre amici, una pattuglia tedesca, secondo quanto si saprà poi, era stata rice­vuta in casa Tamba e quivi era stata intrattenuta, bevendo e chiacchierando, nei limiti ovvi che la conoscenza della nostra lingua poteva consentire. Si vuole che, alla padrona ed all’inserviente che chiedeva­no ai tedeschi il motivo della loro presenza, uno di loro abbia risposto affermando che quella sera vi sarebbe stata una “vi­sita” dei partigiani.
Come ne fossero informati nessuno ha mai potuto accer­tarlo. Resta il dubbio che a fornire la delazione fosse stata la po­lizia fascista, fuggita in mattinata e che, per la sera stessa, aveva concordato la consegna delle armi ai partigiani; oppu­re che il padrone di casa, all’insaputa dei familiari avesse av­vertito il comando tedesco di una richiesta di versamento in favore del movimento clandestino, pure do­vendo ammettere che lui, comunque, non poteva sapere in quale sera, poi, si sarebbe andati in casa sua per ritirare il versamento stesso.
Un’altra considerazione importante si può trarre dalla mancanza di coordinamento relativamente all’azione che sta­va per essere compiuta, tant’è che quella sera si doveva com­piere l’operazione di disarmo del capitano alla Fiorana, com’è da presumersi che lui non avrebbe disturbato l’attività del gruppo operante, una volta che fosse stato informato di quanto doveva accadere, come poi avverrà.
Intanto, lasciati Gigi ed Alfonso, lui si era avvicinato a ca­sa. Lì fuori, seduti ai lati della porta di comune ingresso alle nostre modeste abitazioni, ritrovò come sempre suo padre e la Clorinda[11]. Si fermò anch’egli a cogliere la quiete di quella notte, an­cora più assorta nel buio che proteggeva dagli aerei provenienti dal vicino fronte.
Ascoltava così suo padre parlare del proprio lavoro e la Clorinda annuire con brevi frasi, finché furono attratti da un improvviso bagliore e dall’abbaiare violento di un cane[12]. Si era aperta la porta dei Tamba e la luce viva proveniente dall’atrio proiettava uno squarcio luminoso, insolito a ve­dersi a quell’ora, mentre il cane, sempre abbaiando, si avventava contro qualcuno che voleva entrare. La porta accennò a chiudersi, poi si riaperse, quindi si chiuse definitivamente. Cosa stava accadendo? Lui pensò che fosse giusto muoversi, mentre il padre, im­paurito e dietro di lui, gli raccomandava di tornare indietro.
Si spinse fin sul crocevia, girò a sinistra verso la casa dei Tamba, finché si vide avvicinato da un uomo di statura elevata, che, puntando un’arma, gli intimò di fermarsi. Notò che aveva il volto bendato [coperto cioè col fazzoletto fino all’altezza del naso - nda], e mentre cercava di trarsi dal pasticcio in cui s’era ficcato, si sentì sospingere da destra da un altro armato che l’ammonì: «A casa, subito! Manda a letto tutti e dì che ci sono i partigiani»[13].
Al padre, ch’era rimasto indietro, disse che bisognava rin­casare: lo disse a Max ed all’Irene[14], seduti sulla barriera late­rale della strada e arrivò, così, di nuovo all’entrata di casa, dove si fermò per volgersi e vedere se accadeva qualcosa di nuovo.
Da casa Barbieri, intanto, uscivano il professor Pasi e la Drei, maestra a Filo da tanto tempo[15], e il suo istinto fu quello di correre ad avvertirli di ritornare di dove eran venuti, ma alcuni colpi di armi da fuoco, improvvisi e tremendi, lo fece­ro ritrarre sotto il portico[16].
Di lì udì distintamente un lamento strozzato, come di per­sona che, colpita, si accascia al suolo. Rincorse suo padre su per la scaletta, mentre la sparatoria si faceva più violenta attorno al crocevia, e, coi genitori e la sorella, si chiuse in casa.
Sempre più spaventato, suo padre gli chiese: «Ma cosa mai sarà accaduto...? »
«Credo che abbiano colpito Pasi o la Drei», rispose.
«Purché non abbiano ucciso un tedesco», riprese suo padre; e poi ancora disperato: «Scappiamo figlio mio, scappiamo; qui ci prendono come topi... Loro sono tremen­di... Se non scappiamo adesso, dopo non avremo via d’usci­ta ».
«Ma no, papà!»  cercò di rincuorarlo «non abbiamo fatto niente, che cosa dobbiamo temere?».
Intanto, dalla vicina osteria, si udiva un violento vociare, un correr dentro e fuori, un alterato dare incomprensibili ordini, poi, d’un tratto, a pause, la voce dell’oste che chiamava un vicino, un altro e ancora un altro; unite alla sua voce, più alte, le urla e le imprecazioni dei soldati tedeschi[17]. Il rastrellamento aveva così avuto inizio, casa per casa e ai nomi chiamati altri ne seguivano tutto attorno: non rimane­va che fuggire col padre, a ciò indotti anche dalle insistenze della mamma e della Giovanna[18].
Scesero dietro; nel cortile si mossero con cautela e, poi che furono certi di non essere visti, via di corsa attraverso i campi di Liverani, fino alla casa Sacrato, dove li raggiunse “Como”: che abitava proprio di fronte al crocevia, e che portò conferma dell’avvenuta uccisione di un soldato tede­sco [19]. Allora fu dato non avere più dubbi sulla gravità della si­tuazione: quelle persone, che l’oste stava chiamando sotto la minaccia dei fucili tedeschi, erano ostaggi rastrellati per con­durre quella rappresaglia che l’animo di tutti aveva fino allo­ra temuto, pur non volendo credervi[20].
Più tardi arrivò la Dera[21], con il volto patito dall’insonnia e dalle emozioni subite. Narrò come ne avessero portato venticinque nella saletta dell’osteria, oste compreso, per altro già ferito ad un piede, e là li avessero rinchiusi, per proscioglierne poi quattro di mi­nore età[22]. Disse pure chi erano i rastrellati e non mancarono di stupi­re alcuni nominativi di persone notoriamente compromesse col fascismo.
Sul fare del mattino ritennero opportuno di non essere più di peso ai Sacrato, anche perché, nel frattempo, molti altri erano giunti dal paese, e lui si avviò, dopo un lungo girare, fino alla “Pecorara”, dove pensava che avrebbe trovato qualcuno dei suoi compagni. Poi, al sopraggiungere della Pina, fece seguito l’intera consapevolezza dell’immane tragedia e l’atroce riconfermar­si della morale tedesca.

[III – Il calvario e l’eccidio]
I ventun ostaggi vennero portati nel palazzo scolastico di Argenta, dove il comando tedesco convocò alcuni gerarchi fascisti e richiese ad uno di loro di contrassegnare in rosso dieci nominativi dell’elenco predisposto e comprendente tutti i fermati.
Si vuole che qualcuno dei convocati abbia tentato di inter­porre il proprio interessamento presso il capo della provincia e presso il comando tedesco, senza per altro ottenere un mi­nimo di ripensamento sul quel procedere spietato degli avve­nimenti.
Così, verso le sedici di venerdì otto settembre, un camion partiva col suo carico umano dalle scuole del capoluogo dir­etto a Filo[23]. Arrivati a Ponte Bastia, sull’argine sinistro del Reno e ai margini della Statale Adriatica, furono fatti scendere in cinque: Diani Felice, Bellettini Alfonso, Andalò Giuseppe, Coatti Antonio e Bolognesi Alfredo[24].
Un colpo di pistola alla nuca troncò la vita di quegli infelici che, riversi a terra, lì rimasero quale “ammonimento” ai passanti, fin quando, con un carro usato per il trasporto del bestiame e con carretti avuti a prestito dai contadini, i loro famigliari poterono rimuoverli e riportarli nelle loro case, per sempre segnate dal dolore.
I sedici restanti che, impietriti e chissà in quale disperato sbattimento avevano assistito all’orrendo eccidio, furono fatti proseguire fin sul crocevia di Filo, dove la rappresaglia ebbe il suo completamento: Matulli Luigi, Quattrini Amerigo, Nuvoli Enrico, Coatti Antonio e Marconi Giorgio caddero pure loro abbattuti da un colpo di rivoltella alla nuca[25].
Il giovane Giorgio per ben due volte riuscì ad evitare il col­po, col repentino spostamento del capo, poi lo presero per i capelli e gli spararono in bocca[26].
Un altro dei Matulli, pure fra i rastrellati, sentendosi chia­mare, fece tanto da riuscire a dimostrare che lui era lì sfollato ma che abitava a Faenza. Lo lasciarono libero e chiamarono giù dall’autocarro, co­sì, col gesto della mano, uno di quelli non segnati in rosso. L’uccisero, tanto per loro contava il numero delle esecu­zioni: non aveva importanza se poteva essere, come lo era, un iscritto alla Repubblica Sociale fascista![27]
Tutto questo era accaduto in diciassette ore: un giorno era stato di troppo per stroncare dieci giovani vite e per rovinare dieci famiglie ed un paese intero.

[IV – Tre settimane dopo]
Passogatto è una modestissima bor­gata a cavallo del Santerno, fra Voltana e Giovecca, ai lati della strada per Lugo, pure vicina a Lavezzola e non molto distante da Conselice e S. Biagio.
Per giungere a Filo bisogna percorrere ben undici chilome­tri, tanti, se si vuole, per supporre che proprio da qui, ad un mese appena dal tremendo eccidio, potesse dipendere la sorte di un militare tedesco, colà improvvisamente scomparso. Ciò non toglie, forse per una sorta di folle predilezione ves­satoria, che, nel primo pomeriggio della domenica, che come poi si seppe veniva dopo la scomparsa del tedesco, due auto­carri scaricassero all’incrocio del paese una decina di soldati, che in un baleno irruppero nelle case, per rastrellarvi quaran­taquattro ostaggi, poi portati a Passogatto, nella casa conta­dina di “Burciòñ”.
Fortuna volle che il soldato scomparso si facesse vivo il lu­nedì seguente, dopo aver scaricato, in un bordello di Lugo, le proprie effervescenze, sicché il comando tedesco, nella stessa serata e dinnanzi all’evidenza dei fatti, provvide a lasciare in libertà i malcapitati filesi.
A tanto poteva arrivare la cieca repressione cui il paese era assoggettato, su segnalazione dei gerarchi ferraresi[28].
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I dieci filesi trucidati per rappresaglia nazifascista l’8 settembre 1944. Da sinistra, in alto: Amerigo Quattrini, Enrico Nuvoli, Giorgio Marconi, Arturo Soatti, Luigi Matulli; in basso, da sinistra: Felice Diani, Alfredo Bolognesi, Alfonso Bellettini, Casimiro Beppino Andalò, Antonio Coatti.


A fianco l’Ordinanza dai toni punitivi del Comando Militare Germanico e riservata ai soli cittadini di Filo datata 11 Ottobre 1944.



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In quei mesi, sui monti di Romagna, sei partigiani filesi con alla testa Amato Rossi combattono coraggiosamente nella «Bianconcini», tre di loro: Pietro Liverani, Ainis Tirapani e Mario Guerra non tornano più alle loro famiglie e al loro paese. Cadono, i tre giovani, sotto il piombo nazi-fascista: i primi due sul monte Carzolano il 25 maggio del ’44, il terzo, prima ferito gravemente nella battaglia di Purocielo (ottobre ’44), viene giustiziato con ferocia e con tutta l’infermeria partigiana, dalle brigate nere faentine [29]. Un anno prima, il 10 novembre del ’43 un altro giovane filese, Raimondo Rossi, era caduto in combattimento, ben al di là del mare, sui Monti Balcani nelle fila della Resistenza albanese. Lì, per combattere i nazi-fascisti, si era arruolato dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.

Ottobre 1944, ritorna il terrore a Filo
Ricostruzione dell’accaduto e testimonianze raccolte da Vanni Geminiani

Dopo la sparizione del soldato tedesco di stanza a Passogatto, domenica 1 Ottobre 1944 i tedeschi piombarono a Filo in forze, circondarono il paese e rastrellarono oltre quaranta persone. Fare un elenco di quelle persone, ancorché approssimato, oggi risulterebbe impossibile.
Uber Bellettini (14 anni), il cui padre Alfonso era stato fra le vittime dell’eccidio dell’8 settembre, era sfollato, con la madre (Maria, staffetta partigiana) e il fratello Ibanez, a Molino di Filo, alla base della Piguréra. Lui e il fratello tre settimane prima erano stato presi e rilasciati dai tedeschi.
Quella domenica mattina, verso le undici, Uber, all’insaputa della madre, si trovava da Caprèt, il barbiere, nella baracchina davanti al Palazzone. Ad un certo punto qualcuno gli gridò di darsela a gambe perché c'erano i tedeschi che stavano operando un nuovo rastrellamento nel centro di Filo.
Lui scappò subito, scavalcò una siepe, passò dietro casa Carlotti (residenza di Gemma Vandini che era stata la sua maestra) ma appena in aperta campagna, fu individuato da due tedeschi in lontananza. Gli spararono senza colpirlo, sicché riuscì in qualche modo a far perdere le sue tracce. Dopo un po’ tornò verso l’abitato e vide la signora Gemma sulla porta di casa. La pregò di farlo entrare.
All'interno c’era già Ermanno Leoni (Gàli, 16 anni) che non era riuscito a correre fino a casa sua, a poca distanza. La maestra nascose entrambi al piano superiore.
Qualche istante dopo i tedeschi, che cercavano uomini in ogni casa, bussarono violentemente alla porta, gridando ad alta voce. Lei senza tradire emozioni, e rischiando parecchio, disse che in quella casa non c'erano "uomini". Uber, che dimostrava assai meno della sua età, con sangue freddo infilò una giacchetta e scese con indifferenza le scale. Il tedesco non lo considerò. Gàli, però, qualche anno in più, era rimasto di sopra e a quel punto gli saltarono i nervi. Si mise a piangere. Il tedesco gli ordinò di scendere subito e con lui prese anche Uber.
Fu ordinato ai due ragazzi di andare immediatamente al punto di raccolta nei pressi della caserma mentre il soldato, da casa Carlotti, li teneva sotto tiro col fucile. Appena a destinazione[30], Uber parlò con Cirlèñ Belletti (papà di Wander e Iseo). Lo  supplicò di adoperarsi per suo rilascio visto che da poco gli era stato ucciso il padre e che sua madre non avrebbe retto ad un’altra disgrazia. Cirlèñ si interessò e riuscì a far liberare Uber, ma nulla poté per Gàli che aveva 16 anni.
A questo punto il ragazzo desiderava correre dalla madre a tranquillizzarla, ma il paese era presidiato, gli uomini tutti sbarrati in casa. Decise allora di travestirsi da donna, poi, dietro Maria ad Raflòñ (Maria Pollini, moglie di Raffaele Vandini, fratello di Guerriero), Maria ad Tachini ed Eva Belletti, si diresse in bicicletta al Molino di Filo. Passarono il posto di blocco tedesco che stava dopo il cimitero davanti a casa Pezzi senza essere fermati. Se il travestimento fosse stato scoperto, lui e le tre donne avrebbero rischiato la fucilazione, quasi certamente scambiati per partigiani[31].
Gli altri ostaggi filesi catturati nel rastrellamento furono portati, verso sera, nelle campagne di Passogatto, nel cortile di una casa contadina; lì rimasero sotto la sorveglianza di pochi tedeschi. Ebbero libertà di movimento, ma sotto precisa minaccia: «Se qualcuno scappa, tutti gli altri vengono uccisi».
Davanti alla casa c'era una vigna e da lì staccarono e mangiarono qualche grappolo d'uva ancora da vendemmiare.
Fra gli ostaggi preziosa fu la presenza di don Umberto Pertegato, sfollato a Filo presso il fratello Ferruccio, che si adoperò parecchio per calmare i giovani orientati a tentare la fuga. Fra i presenti si ricordano anche Giurgiòñ Cassani, Tempioni (papà di Cichìno), Enea Checcoli detto Néo d’Fióri[32], Ghiselli Tonino, detto e’ Göb, babbo di Pippo, Vincenzo Minguzzi (Sula), Giovanni Righini[33] e Nello Bonora. La Nella, moglie di quest’ultimo, salì in bicicletta, andò ad Argenta per avere notizie dei filesi e, di lì, andò fino a Passogatto per rincuorarli.
Nella mattinata del giorno seguente il tedesco sparito fu miracolosamente ritrovato; si era recato in un bordello di Lugo, si era ubriacato, infine era caduto in un fosso.
Fu così che i nostri concittadini vennero lasciati liberi e, da Passogatto, tornarono a Filo a piedi[34].


Il cippo al Ponte Bastia
Il cippo nel centro di Filo

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La Liberazione del territorio non è ancora però imminente. Ravenna viene liberata il 5 dicembre e il fronte si attesta per tutto l’inverno ‘44-45  - vedi cartina a fianco - lungo il Senio, lungo una nuova demarcazione, la cosiddetta Gengis-Khan, determinata dal cedimento della Gotica nella sola parte orientale.
E’ da questa linea, la linea del Senio, che parte nell’aprile del ’45 la grande offensiva di primavera delle Forze Alleate.

Linea Gotica e Linea Gengis-Khan

Nelle terre dell’Argenta Gap ove si disputa la battaglia che, di fatto, pone termine alla Campagna d’Italia, tanti sono, in quell’aprile 1945, i lutti, i morti, le macerie e le distruzioni che stravolgono i nostri paesi, da Anita ad Argenta.  Muoiono tantissimi civili, il centro di Filo rimane praticamente raso al suolo. Cadono, nei giorni del passaggio del fronte, anche due partigiani filesi della Brigata di Pianura «Mario Babini»: Alfeo Fabbri (Pipòñ), uno dei 22 antifascisti arrestati e processati nel ’31, ed Egidio Leoni (Fabio). La conta dei morti porta a 141 persone: 91 civili, 31 militari e 18 Martiri della Libertà.
 Pochi giorni dopo l’intera penisola, dopo un ventennio di negazione ed usurpazione dei valori e dei diritti più elementari, ritorna alla Libertà ed alla Democrazia.

Aprile 1945 - Il centro di Filo distrutto dai bombardamenti, visto dalla chiesa




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Questa ricostruzione dei fatti tragici filesi del 1944, ha permesso di far conoscere i nomi e le storie dei diciotto Martiri della Libertà, delle diciotto stelle d’argento che onorano la bandiera tricolore della locale Associazione Partigiani. Sono nomi e storie che dicono e raccontano perché, Filo e la sua gente sentono ancora, sulla loro pelle, il valore di quella Libertà e quella Democrazia.
E’ un popolo che aspira ad un mondo di concordia e di pace, ma che non dimentica gli orrori della guerra, né gli insegnamenti della lunga lotta al fascismo; chiede per questo una corretta e diligente rappresentazione della storia, nazionale e locale.
Nelle nostre famiglie c’è oggi un senso di fierezza, orgoglio, rispetto, tenero ricordo dei tanti, troppi caduti dell’ultimo conflitto. E’ una memoria ancora forte e viva che si accompagna alla gratitudine e alla riconoscenza verso chi, in quel lontano 1944, nei giorni più bui, nei giorni neri dell’oppressione, si sacrificò con abnegazione e coraggio per tutti noi, noi che oggi possiamo vivere da uomini liberi.

(5 – Fine)              


[2] A.Meluschi, Epopea Partigiana, cit. p.278
[3] La Piguréra era già base e luogo di rifugio per i partigiani ancor prima dell’arrivo a Molino di Filo di Antonio Meluschi (Il Dottore). L’epoca del suo arrivo, la indica lo stesso Libero R. Maccarini (op. cit, «Con l’arrivo del “Dottore”», p. 54): «[…] Doveva essere, pressappoco, la fine del mese, ed ogni movimento segnava l’affanno della ripresa stentata, dopo il tremendo eccidio dell’otto settembre e a breve tempo dal rastrellamento della prima domenica di quell’ottobre [1 Ott. 1944 n.d.A.], tanto denso di vecchie e nuove preoccupazioni». Ci si riferisce al secondo rastrellamento che il paese di Filo subì per la sparizione di un soldato tedesco a Passogatto, vicenda di cui l’autore racconterà in chiusura del brano qui trascritto.
[4] Dovrebbe trattarsi della molinese Pina d Barchìra, madre di Luciana Lippi Bruni.
[5] Questa parte del racconto è scritta in terza persona. Il «lui», quindi, è lo stesso Libero Ricci Maccarini, la cui abitazione è nelle adiacenze dell’osteria, come apparirà evidente alla citazione della sorella Giovanna.
[6] L’accenno è alla bella villa di Case Selvatiche di proprietà di Carlo Tamba.
[7] Appare evidente quindi come il comitato di Filo sia alle dipendenze del CUMER, Comando Militare dell’Emilia Romagna.
[8] Giovanni non può essere che Giovanni Matulli detto Gianêl, comunista, a lungo perseguitato dal fascismo, incarcerato e condannato nel 1930-31. Sei mesi prima, come mio padre Guerriero, era scampato all’esecuzione sommaria delle Brigate Nere, rilasciato in extremis dopo la sparatoria che aveva colpito a morte Agida Cavalli.
[9] Nelle ricostruzioni postbelliche l’azione di disarmo cui si apprestavano i combattenti viene descritta con altri particolari. L'Unità del 14 settembre 1974 riporta: «Nel pomeriggio del 7 settembre le brigate nere dovevano trasferirsi dalla caserma di Filo a quella di Portomaggiore. Il movimento partigiano ne fu informato e dispose un'azione per sottrarre le armi ai fascisti. Ad un gruppo di partigiani fu affidato il compito di attaccare le brigate nere lungo la strada di Bando. I fascisti all'ultimo momento cambiarono percorso e si trasferirono passando per il ponte della Bastia e, quindi, per Argenta. Al gruppo partigiano venne ordinato di ritirarsi senza ovviamente compiere l'azione». Libero qui riporta che Gianêl apprende da un informatore che «quei ragazzi», chi tabëc, venuto meno il piano di uscita, sono comunque in azione, ma diretti verso la Fiorana dove intendono disarmare un militare fascista. Sono versioni difformi che tuttavia ci raccontano come il CLN filese non avesse il completo controllo di quanto stava avvenendo quella sera.
[10] Gigi è Luigi Matulli, l’altro è Alfonso Bellettini. Incapperanno nel rastrellamento e cadranno entrambi vittime dell’eccidio.
[11] E’ la vicina di casa Clorinda Quattrini (1907-1992) residente al piano inferiore del fabbricato, assieme alla madre ‘Medea ed ai fratelli Enrico (Richèñ) e Romildo.
[12] Dalla finestra dei Ricci Maccarini che dava sulla strada Provinciale era infatti visibile, a quell’epoca, il palazzo Tamba che stava ove sono oggi le Scuole elementari.
[13] Di questo ordine imperioso a rientrare in casa («A letto tutti e chiudete le porte…»), dato poco prima della sparatoria che colpì il tedesco, c’è ancora memoria nella mia famiglia che, a quel tempo, abitava al lato opposto della strada, a poca distanza dall’osteria.
[14] Sono abitanti o ex filesi sfollati delle case vicine: Max Barabani, padre di Carlo e Paolo, il cantante già noto a questo blog, ed Irene di Amedeo Mezzoli e di Eufemia Cavalli, quest’ultima zia di mio padre, emigrata con la famiglia a Bologna e poi, come gli altri fratelli Cavalli  sfollata al paese natio, durante la guerra.
[15] Il primo è Emilio Pasi, classe 1912, di Tancredo e di Giovanna Minguzzi, famiglia di origine alfonsinese, fattori del proprietario terriero Casadio. La famiglia risiedeva a Filo d’Alfonsine, nella casa poi abitata dalla famiglia di Massimo Galamini che, in epoca successiva, ricoprì le stesse funzioni. La seconda è Dina Drei, maestra che alloggiava presso la famiglia Barbieri.
[16] Pare che a Casa Tamba si fosse recato a ritirare la somma concordata, una prima volta l’uomo dal volto bendato incontrato da Libero, e una seconda volta, poco dopo, altri partigiani a volto scoperto. Nino Tamba avrebbe risposto a questi ultimi di non avere più il denaro perché appena consegnato. In quel momento sarebbe comparso il tedesco e di lì sarebbe nata la sparatoria (Testimonianza raccolta da Vanni Geminiani).
[17] L’oste citato è Enrico Nuvoli (Ricco), cui è intitolata la via di Filo di Alfonsine ove risiedo, uno dei dieci ostaggi filesi uccisi. Enrico, spintonato e incalzato dai tedeschi alla ricerca di uomini da rastrellare, li porta al lato opposto della strada, presso la residenza della Minghìna (Domenica Mercatelli) e della di lei madre Baztìna (Battistina Ricci Maccarini), due donne che vivono sole. Le loro stanzette stanno al piano superiore dello stabile abitato dalla mia famiglia. Qui Ricco viene picchiato per la presenza di sole femmine ed obbligato a fare i nomi di chi era all’osteria prima della sparatoria. Di tutto questo ho udito io stesso, dopo la guerra, da ragazzo, nella casa popolare in cui sono cresciuto, direttamente dalla Minghìna, nostra vicina di casa. Peraltro mi fu sempre raccontato che mio padre, ovviamente in allerta dopo l’uccisione della madre di sei mesi prima, sfuggì al rastrellamento perché subito informato dell’accaduto dalla cugina Alda Cavalli. La ragazzina aveva familiarità con la lingua tedesca (lingua della madre, la staffetta partigiana Annie Oelsner) ed aveva appreso della morte del tedesco dalle urla che giungevano fino a casa nostra. Pretese però l’Alda, piangente e impaurita, che il padre, lo zio Tonino Cavalli, non si muovesse da casa e, convinta di evitargli ogni rischio, lo nascose sotto il materasso. Per fortuna, come si è già detto, i tedeschi, scesi dalla nostra rampa spintonando il povero Ricco, furono indotti da quest’ultimo a salire le scala posteriore e a non entrare in casa nostra. «Lì ci abitano soltanto donne…», mentì Ricco indicando il nostro portone. Da sotto il materasso, zio Tonino udì poi, con terrore, attraverso le fessure del soffitto quanto avveniva sopra di lui, presso la Minghìna. Quanto a zia Annie, che ricordo con tanto affetto, riporto due note biografiche: «Oltre alle usuali funzioni di staffetta, ha partecipato in prima persona al disarmo di fascisti e tedeschi, compiendo anche atti di sabotaggio nelle zone allagate fra Menate, Filo e Bando, e ha collaborato all’assistenza sanitaria in valle, occupandosi in particolare del punto di soccorso situato alla “Ghedinia”». D.Tromboni- L.Zagagnoni, Con animo di donna, Ferrara, Cartografica Artigiana, 1998, p.284.
[18] Il padre di Libero è Ricci Maccarini Achille (Chilèñ), la madre Cesira Bellenghi (Cišìra); la sorella è Maria Giovanna Ricci Maccarini che sposerà nel dopoguerra Bonnar Briggs, un ufficiale inglese. Chilèn e la Cišìra vennero a vivere nelle case popolari e, anche loro, furono indimenticabili vicini di casa della mia infanzia.
[19] Libero e Chilèñ fuggono perciò dal lato posteriore della loro abitazione dirigendosi verso la frazione ravennate di Filo. Attraversano la zona capanni e serragli del Palazzone, superano la casa Liverani (ora parco M. Margotti), e si portano presso i Sacrato, famiglia che risiede nella prima casa contadina (oggi demolita) a sinistra dello stradone (ora Via Rondelli) che porta al fiume. Cömo è Ricci Maccarini Mario, indimenticabile personaggio filese già noto all’«Irôla» (28.10.2007).
[20] Libero capisce perciò solo in quel momento il vero significato delle urla udite nei pressi dell’osteria.
[21] Dera Bedeschi, altro ben noto personaggio filese, levatrice ed attiva staffetta partigiana.
[22] I minorenni incappati nel rastrellamento erano quattro, ossia: i due figli di Alfonso Bellettini, Uber (Mazalôca) ed Ibanez (e’ Baròñ) e poi Sante Toschi (Baréra), poco più che ragazzini, e il diciottenne Giorgio Marconi. Per la loro liberazione si interessò Nino Tamba che ordinò all’inserviente Rita Gardelli, friulana di confine in grado di spiegarsi in tedesco, di recarsi all’osteria ed intercedere opportunamente affinché questi giovanotti venissero rilasciati. Rita ci riuscì per i tre più giovani, ma non per Giorgio, uno dei caduti nell’eccidio del giorno dopo. La sua liberazione fu negata. Dissero che a diciott’anni in Germania i giovani avevano già l’età per la guerra e per la morte. (Testimonianza raccolta da Vanni Geminiani).
[23] Il convoglio era costituito da un mezzo militare con a bordo alcuni militi tedeschi, una Topolino con dentro tre italiani (incaricati delle esecuzioni materiali) ed il camion degli ostaggi, un mezzo di proprietà di un filese, normalmente adibito al trasporto di bestiame. Nel cassone con gli ostaggi erano presenti, come sorveglianti, alcuni militari germanici. Al ritorno verso Filo, e all’attraversamento di San Biagio, un bombardamento aereo alleato parve dare qualche speranza di fuga ai prigionieri, ma i tedeschi, scesi dal camion, si ripararono in una casa nei pressi dell’attuale farmacia sanbiagese; di lì tennero sotto tiro gli ostaggi durante l’incursione aerea (Testimonianza raccolta da Vanni Geminiani).
[24] Le esecuzioni avvengono in successione ai margini della strada davanti al Ponte Bastia sul Reno, luogo di grande frequentazione e passaggio obbligato verso il lughese. I morti devono essere di monito per chi attraversa quel luogo. Carnefici sono i tre fascisti forestieri col fez scesi dalla Topolino. Gli ostaggi, col nome cerchiato di rosso nella lista, vengono chiamati uno per volta e poi soppressi con un colpo di pistola alla nuca dall’individuo più alto. Al momento in cui viene chiamato ad alta voce “Coatti Antonio”, scende dal camion Coatti Paolo (Ciarèñ, altro mio vicino alle case popolari), padre del giovane Coatti Antonio (Tugnòn, detto anche Zöca). Dice: «Vengo io al posto di mio figlio!» Gli rispondono che la sostituzione non è possibile. Ciarèñ chiede delucidazioni, poiché sono due i Coatti Antonio fra gli ostaggi. Si appura che il designato è l’altro Coatti Antonio, padre di Eligio. Nel cassone c’è fra i rastrellati anche l’anziano papà di quest’ultimo che, come già aveva fatto Ciarèñ, offre il suo sacrificio, ma i dispensatori di morte non sentono ragioni. Compiuta la carneficina, i tedeschi ordinano ad un loro giovane militare di restare sul posto per impedire a chiunque lo spostamento dei corpi. Il ragazzo non se la sente, prova ad aggrapparsi al camion che sta ripartendo, ma viene obbligato a rispettare l’ordine ricevuto (Testimonianze raccolte da Vanni Geminiani).
[25] Anche queste uccisioni furono perpetrate dal più alto dei tre italiani col fez. Gli ostaggi, fatti scendere nel crocevia ai margini della strada per Bando, vennero tenuti in piedi uno per volta e rivolti in direzione della chiesa. Il boia da dietro appoggiò loro, un dopo l’altro, una mano sulla spalla, sopprimendoli con un colpo di pistola alla nuca sparato con l’altra mano armata (Testimonianze raccolte da Vanni Geminiani).
[26] Secondo le tante testimonianze, quella del diciottenne Giorgio Marconi fu l’ultima delle esecuzioni e, come tutti sanno, la più terribile. Giorgio riuscì una prima volta, con un rapido scatto della testa, a scansare il colpo del carnefice. Questi allora sparò un secondo colpo che però fece cilecca. A quel punto ci fu il tentativo di intervento dell’Annunziatina Bosi che da casa sua, posta a pochi metri dal crocevia, assisteva alla macabra scena. Come ho già riportato in questo blog (29-7-2013: «I vecchi tempi della Vinzinzóna») la settantenne Annunziatina, di fronte alla spietata ferocia che si materializzava sotto i suoi occhi, cercò di implorare e anche di inveire verso gli aguzzini affinché rilasciassero «che pòvar tabàc» la cui madre disperata (Teresa Romagnoli detta Tisa) assisteva dalla finestra di casa poco distante. Quando gli sgherri spararono senza pietà sul ragazzo e  il primo colpo mancò miracolosamente il bersaglio, l’anziana e religiosa signora urlò a squarciagola: «basta basta, a n’avdì ch’l’è incóra un tabàc, e ch’l’è banadèt da la Madöna?»[Fermatevi! Non vedete che è ancora un ragazzo e che è benedetto dalla Madonna?] La donna non ottenne pietà, fu anzi vigliaccamente percossa e minacciata di morte mentre i feroci aguzzini portavano a termine la carneficina. Pare anche che persino i due «colleghi» del boia avessero chiesto la sospensione, non certo per pietà o pentimento, ma per rispetto della tradizione e dell’usanza che vuole sia concessa la vita al condannato se l’esecuzione fallisce per fatto accidentale. Il truce aguzzino non volle sentir ragioni, anzi, con ancor più lena fece inginocchiare il ragazzo, gli bloccò la testa fra le ginocchia e gli sparò dall’alto al basso (testimonianze raccolte da Vanni Geminiani).
[27] Lo sfollato da Faenza è Matulli Paolo, fratello di Luigi. Al suo posto viene chiamato, a caso e scorrendo la lista, Soatti Arturo, detto e’ furnarèñ. Questi, che aveva moglie e tre figli e di simpatie repubblichine, se avesse manifestato la sua militanza fascista avrebbe forse potuto evitare la morte, ma non lo fece e salvò, di fatto, la vita a qualcun altro. Fu anche questo un esempio di coraggio e di dignità che va ricordato con grande rispetto.
[28] Si veda la ricostruzione di Vanni Geminiani  in calce al presente articolo.
[29] Tutta la loro storia è stata raccontata in A.Vandini, Sotto l’ombra di un bel fior, Faenza, Edit, 2005.
[30] «Le persone venivano raggruppate tra la caserma e l’osteria Benassi (oggi negozio Ghirardini). Durante la confusione del momento, mio padre Salvatori Ferdinando (Ramo) e Mezzoli Adolfo (Tufaiaia padre di Lodino), riuscirono a scappare senza farsi vedere» (Testimonianza di Luciano Salvatori).«A quanto mi raccontava zia Fastina [sorella di Vincenzo e di mio padre Tullio Minguzzi detto e’ Méstar], zio Sula era quel giorno seduto su di un muricciolo nei pressi dell’incrocio di Filo. Quando giunsero i soldati tedeschi, molti dei quali erano poco più che ragazzini, ci fu l’immediato fuggivia e qualcuno vedendolo immobile gli gridò «Fuggi Sula, fuggi!». Lui rimase invece al suo posto, dicendo che era al suo paese e che lì aveva tutto il diritto di restare. Le stesse cose, urlando, le ripeté in dialetto in faccia ai tedeschi che affrontò a male parole, mentre lo spingevano al punto di raccolta» (Testimonianza di Giorgio Minguzzi).
[31] Testimonianza di Uber Bellettini.
[32] Morirà suicida nel dopoguerra.
[33] Queste, fra i 44 ostaggi, sono le persone che ricordava Gàli. A queste si può certamente aggiungere, per quanto si tramanda in famiglia, anche il nome di mio nonno, il calzolaio Ivo Vandini (Ivo dla Bargamina), vedovo di Agida Cavalli.
[34] Testimonianza di Ermanno Leoni detto Gàli.

3 commenti:

Filese ha detto...

Pubblico un primo lotto di commenti ricevuti:
Franco Fabbri
12 feb (4 giorni fa)


a me


anch'io mi unisco ai tanti che hanno apprezzato la tua magistrale ricostruzione storica degli avvenimenti successi a Filo che in parte coincidono coi miei ricordi infantili. attendo notizie del film che è stato girato sulla ricostruzione di detti fatti […]
Ciao

Agide Vandini
12 feb (4 giorni fa)

a Franco


Grazie Franco per i complimenti che fanno sempre piacere.
Il film è, come ho scritto: "L'aquilone sul Reno", ma non si trova, né credo si sia mai trovato, in commercio.
Fu girato grazie ad una sponsorizzazione della Coop Costruttori ora fallita e raggruppa, collegandola ad una storia di fantasia, tutti gli eventi più drammatici avvenuti nell'argentano durante la guerra.
I miei commenti sullo scarso valore documentaristico, almeno della parte dedicata a Filo, li hai letti nella prima puntata.[…]
Un caro saluto.
°°°
Romano SACCANI VEZZANI
19:04 (12 ore fa)


a me


Che dire?hai completato con la tua precisa ricerca,un capolavoro.Sembra un racconto di fantasia,ma purtroppo e la verità capitata al nostro popolo per liberarsi della dittatura più bieca.Noi Italiani non riusciamo a digerire certi sistemi autoritari e repressivi.Vorrei che queste testimonianze fossero insegnate nelle scuole,e che i nostri giovani dediti alla bella vita spensierata,anche per colpa nostra,fossero informati della vita toccata ai loro nonni e a quanti hanno sacrificato la vita per dargli la libertà.Hai fatto un capolavoro da fare venire il magone.Ciao Agide e grazie del tuo operato.
°°°
Dal Buono Willer 13 feb (3 giorni fa)

a me
Caro Agide o letto e riletto, le tue puntate sui tragici avvenimenti di Filo durante il ventennio fascista fino all'epilogo finale della liberazione, unitamente alla mia famiglia che abbiamo commentato gli accadimenti raccontati, ti esprimiamo gratitudine per il lavoro svolto, affichè questa memoria rimanga viva nel tempo. Ciao Willer

Agide Vandini 14 feb (2 giorni fa)
A Dal Buono Willer

Grazie Willer, il tuo apprezzamento mi fa capire che l'iniziativa è stata giusta, ha colto nel segno.
Come avevo promesso a Guglielmo, e come avevo anticipato all'assemblea ANPI, i cinque articoli li ho già raccolti in un fascicolo, dotato di adeguata copertina, rilegabile presso un comune center-copy (ho già il contatto opportuno ad Argenta) che provvederemo poi, se anche gli altri saranno d'accordo, a distribuire ed a diffondere con introiti a favore dell'ANPI filese.
Lo scopo è di fare in modo che, anche quelli che non leggono Internet, possano fruire del lavoro svolto. Ciao.Agide

Filese ha detto...

Aggiungo:

aderitto geminiani 13 feb (3 giorni fa)

a me


Carissimo Agide,
non mi stancherò mai di esternarti tutta la mia ammirazione per avermi raccontato così scrupolosamente un pezzo di storia, che io da bambino appena in età scolare, ho vissuto marginalmente. Tutti i fatti così angosciosi mi inducono a leggerti e rileggerti perché non mi par vero che tutto ciò sia accaduto mentre io non capivo niente. Percepivo e la mia memoria non mi tradisce, anche se ero piccolo, che attorno a me c'era qualcosa di anormale. Mentre tu descrivi così tutto ciò che è avvenuto, io mi chiedo, adesso che sono alla soglia della linea fatale, quali stati di animo potevano avere i nostri avi in quel periodo, martoriati da bestie inferocite, sempre pronte a colpire persone indifese che chiedevano solo di poter vivere una vita serena in un mondo sereno usurpato dalla FOLLIA di menti malate.
E' davvero stupendo il tuo racconto, io tutti i personaggi ,o quasi, me li ricordavo, perché abitando nel palazzone, sono sicuro che sarò passato attraverso tante braccia e visto tante facce indimenticabili che dalle foto non ho esitato a riconoscere.
Agide,se posso, Gianèl, mi sembra non fosse Giovanni il nome ma Gianni, puo' essere? Ricordo Chilen e la Cesira tuoi vicini di casa e la loro figlia Giovanna che sposò un ufficiale Canadese. La Cesira diceva sempre al marito “se uno di noi due muore, io vado in Canadà da mia figlia”!... Così almeno scherzava la gente. Io metterò gli splendidi 5 racconti insieme e ritornerò a leggerli e non dimenticherò!!!!!!!
Grazie Agide a te in primis, a Vanni anche se non mi conosce, e a Carlotti e a tutti quelli che in qualche modo hanno contribuito a questa eccellente opera.
Un caro saluto ed un affettuoso abbraccio.. pippi

Filese ha detto...

La mia risposta a Pippi:
Agide Vandini agide
14 feb (2 giorni fa)


a aderitto


Pippi carissimo,
metterò questo tuo commento che è anche una testimonianza, se non hai nulla in contrario, fra i commenti sul blog. Se non erro mi scrivesti anche che tu, piccolissimo, in quell'8 settembre 1944 volevi guardare dalla tua finestra, dall'alto del palazzone quanto avveniva nell'incrocio di Filo.
Gianèl all'anagrafe si chiamava Giovanni, come puoi agevolmente vedere nella sentenza di condanna del 1931 che trovi alla 2° puntata. Come quasi tutti i Giovanni, il suo nome veniva abbreviato in Gianni, Giannetto, ossia, in dialetto, Gianèl.
Quanto alla Cesira e Chilen, due tipi singolari, ho tantissimi ricordi. Molti li ho riportati in "Gente Semplice" altri ne "La valle che non c'è più". La figlia Giovanna, come ho riportato nelle note, sposò nel dopoguerra Bonnar Briggs, un ufficiale inglese conosciuto qui durante la guerra e il passaggio del fronte, ed andò inizialmente ad abitare in Canadà, poi negli Stati Uniti fino a quando, a metà anni '50 (forse verso il '56 o il '57) non tornarono a vivere in Inghilterra. In quella occasione trascorsero alcuni mesi a Filo con tutta la famiglia, a casa della Cesira, accanto al mio appartamento, mentre le loro masserizie venivano nel frattempo trasportate in nave in Gran Bretagna. Io avevo una decina d'anni e giocavo spesso col loro figlio maggiore, John (che ne aveva un paio in meno) e anche con la piccola Angela, mentre il neonato Paul lo tenni qualche volta in braccio, ma poi una volta mi sfuggì, finì a terra e gli crebbe un bel bernoccolo. Dopo non l'ho più tenuto. Bonnar era una persona buona e parlava bene in italiano, così come John ed Angela. Morta la Cesira, quando venivano in Italia si fermavano ad Argenta da Libero. Non li ho mai più visti. Un paio d'anni fa è apparsa solo l'epigrafe a Filo, alla morte della Maria Giovanna.
Io mi sento ancora molto legato a quella straordinaria comunità che era allora la nostra casa operaia. Eravamo sei famiglie: I Vandini, Ricci Maccarini, Cantelli, Coatti, Mercatelli e Matulli che in pratica vivevano e si comportavano come fosse una sola grande famiglia. Oggi questo tipo di rapporti non esiste più.
Quanto agli articoli, li ho raccolti per bene in modo che formino un fascicolo stampabile e rilegabile. L'ho proposto all'ANPI filese per una diffusione e distribuzione su carta, con introito netto a favore della sezione locale.
Se vieni a Filo per la festa della Liberazione del paese che celebreremo nella domenica più vicina, ossia il 13 aprile, domenica delle Palme, dovresti trovare la pubblicazione. Ci sarà, come negli ultimi due anni, un ritrovo nella Saletta del casa del Popolo con bella musica e canti. Dovrebbe venire l'ex filese Frida Forlani.
Un grande abbraccio. Agide