venerdì 19 dicembre 2014

Partigiani e contadini



Gli «Amarcord» di un partigiano filese (I)
di Giovanni Pulini[1]
[Edizione e Note a cura di Agide Vandini]

Giovanni Pulini (1926-vivente)
 Caro Agide,
nella nostra telefonata di qualche giorno fa mi ha fatto tanto piacere sentire che Filo coltiva sempre la memoria della Resistenza, com’è giusto che sia. Del resto tu ben sai il contributo dato dal nostro paese alla Libertà e te ne do merito. Ti mando, qui unito, un mio amarcord con foto ed altri seguiranno.
Saluti a te e famiglia.
                                  Giovanni.    
Bologna, maggio 2014
Il bando della Repubblica di Salò
(Dono di G.Pulini alla sez. ANPI di Filo)

Raccontare della Resistenza oggi
Ritornare con la mente alla Resistenza e a certi suoi aspetti, a molti anni di distanza da quel tragico periodo, può apparire incomprensibile a chi a quel tempo non era ancora nato. E’ facile pensare ad una qualche forma di «nostalgia», ma voglio assicurare che non è così, anzi. Per quanto mi riguarda, forse non ho ancora metabolizzato fino in fondo quei trascorsi nonostante siano passati settant’anni.
Questi miei amarcord vorrei rivolgerli in particolare a coloro che non erano ancora nati e a quelli che la Resistenza l’hanno letta sui libri o sui giornali dove spesso si è raccontato quel momento storico secondo convenienza. Uso la parola «convenienza» perché è doveroso dire in prima battuta che è stata una guerra fratricida, e proprio per questo motivo molte versioni sono state date in maniera piuttosto falsata.
Vorrei, con alcune memorie di vita vissuta, spiegare al lettore a modo mio chi erano i partigiani. E in qualche modo perché erano partigiani. Non ho la pretesa di scrivere un testo storico; i miei racconti sono forse poca cosa, niente più che testimonianze personali di quel periodo.

Come diventai «partigiano»
Nella primavera del 1944 il ministro della Guerra della Repubblica di Salò era il generale Graziani e decretò un bando di arruolamento ove era incluso anche il mio anno di nascita; il bando, dopo avere descritto le modalità di presentazione, diceva pressappoco che chiunque non si fosse presentato entro i termini prestabiliti, se catturato, sarebbe stato fucilato sul posto.
 Io mi diedi alla macchia, sfamandomi grazie alla generosità dalle famiglie della zona. Dopo un breve periodo di latitanza, un uomo della Resistenza, mi chiese di partecipare ad un’azione; la mia adesione fu immediata; ero consapevole che si sarebbe trattato di un’azione di guerra. Divenni «Condor» e fui assegnato ai servizi logistici come partigiano di quella che poi diventò la 35a Brigata Mario Babini operante nell'Argentano e nelle valli di Comacchio. Comandante di brigata diventò Antonio Meluschi, «il Dottore».
Il teatro della guerriglia comprendeva il terreno bonificato del nostro territorio che nell’autunno di quello stesso anno i tedeschi avevano allagato creando uno specchio d'acqua enorme; tutte le case della bonifica erano rimaste parzialmente sommerse formando una «zona franca». Mi sono poi documentato nel dopoguerra per conoscere il numero dei partigiani presenti in questa valle: le diverse formazioni che vi facevano capo contavano circa  un migliaio di combattenti. La gran parte di costoro  non aveva mai superato la terza elementare, molti erano analfabeti, non sapevano fare neppure la loro firma; il settanta per cento erano mezzadri o braccianti di miserevole condizione familiare, in pratica: gli ultimi nella scala sociale.

Cecco e la Riforma Agraria
Sull’esperienza della vita alla macchia e su alcuni suoi protagonisti, vorrei soffermarmi  un momento perché trovo che questa sia la parte più genuina della  Resistenza.
Per i compiti che mi erano stati affidati avevo modo di frequentare e talvolta pernottare  nelle case allagate, dov’erano presenti i distaccamenti. Lì c’era spesso scambio di idee, si veniva a contatto con le esperienze di vita dei compagni di armi e di lotta. Il partigiano del resto, nei momenti di relativa calma, aveva bisogno di raccontarsi e la maggior parte delle volte si trattava di racconti tristi che riguardavano la famiglia con la quale ogni contatto era perduto; sentiva il bisogno di parlarne come se questo avesse potuto avvicinargliela e di togliersi di dosso, tramite l’esternazione, la tensione accumulata durante la giornata.
Una sera arrivai in una di queste case per il trasbordo di un pilota americano, al momento impedito da un’improvvisa burrasca. Dovetti così pernottare in quella base, dove una decina di partigiani erano impegnati in una discussione accanita. Il giorno stesso una staffetta aveva portato un foglietto ciclostilato che ci era familiare: L’Unità. Il giornale conteneva un po’di tutto, ma quel giorno spiegava la riforma agraria da farsi nel dopoguerra. Era un argomento assai sentito nel gruppo, composto da braccianti e contadini che sull’argomento erano portatori di istanze ben vive da un paio di generazioni.
Dopo un po’ la discussione si smorzò e ognuno si preparò il letto sul fieno. Vicino a me prese posto un partigiano non più piovane. Parlava a singhiozzo e quasi sillabando mi disse:
«Mi chiamo Cecco e non sono mai andato a scuola. Se, finita la guerra, si potrà fare quello che dice il giornale, a me va bene».
A quelle parole, dette in quel modo smozzicato e da un balbuziente, a stento trattenni la risata, anche perché erano rari i momenti di allegria. Girai perciò la testa altrove, mentre Cecco aggiungeva: «Fare il contadino è un lavoro faticoso, ma la fatica più pesante è sopportare le pretese del padrone e le umiliazioni che ti butta addosso». Mi raccontò allora che la sua famiglia era composta da venti persone, e che ognuno di loro aveva una specifica mansione. Lui curava gli animali, era l’uomo della stalla aiutato di tanto in tanto dal padre già anziano. Questi si chiamava Gianetto, era il capofamiglia e teneva i rapporti col padrone. In Romagna chi ha questo incarico viene chiamato  L'Azdór.
Cecco mi spiegò che i conti si facevano una volta l'anno, il padrone vendeva il prodotto del podere senza mai interpellare Gianetto il quale saltuariamente andava a prendere acconti di denaro per provvedere al sostentamento della famiglia. Un giorno, dopo che era stato venduto il grano, Gianetto, con la famiglia allo stremo, era andato a chiedere un acconto al padrone, ma si era si sentito rispondere, con fare quasi beffardo: «Non ti posso dare niente perché non ho ancora incassato…».
Poi, Cecco, superato il momento di emozione, tornò sulla questione della riforma agraria: «Tu credi che ci diano la terra? Io non vedo l’ora, perché ho un paio di soddisfazioni da togliermi, ho subito parecchie umiliazioni che da tempo mi stanno sul gozzo». Seppi un mese dopo che era morto nello scontro con una pattuglia tedesca. Era morto per la libertà di tutti, anche per quella di chi, a quel tempo al calduccio e fuori dai pericoli, aveva negato l'acconto a Gianetto.

Delves, contadino e barcaiolo
Nell’estate del ’44 avvenne un altro episodio significativo. Durante un rastrellamento, io ed altri tre partigiani pensammo di nasconderci dentro un campo di girasoli. Era il mese di agosto ed il caldo era soffocante, non avevamo acqua per bere.
Uno dei compagni disse: «Quando penso che nel cortile di casa mia c'è una fontana dove sgorga acqua senza mai fermarsi, mi sembra di impazzire». Si chiamava Delves. Raccontò che era contadino ed aveva una numerosa famiglia. Il terreno che lavoravano era di una grande società e questa aveva affidato la direzione locale ad un fattore che si spostava in calesse a tutte le ore.
«Quando andavamo a tavola per mangiare dovevamo mettere una vedetta»  mi disse «Se si vedeva arrivare il fattore, si doveva sgombrare la tavola, poiché mangiare in sua presenza era considerata una mancanza di rispetto nei suoi confronti. Perciò, per evitare un umiliante richiamo, noi mettevamo la vedetta…».
Il contadino Delves era diventato partigiano barcaiolo, proprio come me.
Un giorno, mentre portava viveri ad un distaccamento, un aereo sfrecciò a pelo d'acqua e lo mitragliò; il corpo di Delves fu trovato nel dopoguerra allorché venne prosciugata nuovamente la bonifica. Non poté perciò, il valoroso partigiano, vedere la fine di quella tragedia immane che da sempre è la guerra; come del resto molti altri che a quel tempo hanno speso la loro giovane età, sorretti dalla speranza di scrollarsi di dosso la perenne miseria e l’umiliante sudditanza che li perseguitava.
Purtroppo, quando la guerra finì, molte cose rimasero come prima e  il peso della ricostruzione toccò sempre agli stessi, a quelli cioè che sono da sempre sull’ultimo gradino della scala sociale, ai tanti mai andati a scuola, a coloro che non avevano mai avuto un diritto, a quegli ultimi della classe che, però, avevano sentito l’impulso e il dovere di battersi negli acquitrini delle Valli di Comacchio, laddove tanti loro compagni hanno trovato la morte. 

                                                                                                                            (I – continua)


[1] Per le note biografiche di G. Pulini, si veda in: http://filese.blogspot.it/2014/04/lui-il-dottore-lei-linfermiera.html

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