lunedì 22 dicembre 2014

Requisizioni e spinosità del dopoguerra



Gli «Amarcord» di un partigiano filese (II)
di Giovanni Pulini
[Edizione e Note a cura di Agide Vandini]


La requisizione
Nelle case allagate della valle, dove non mancavano i disagi, erano acquartierati i distaccamenti di partigiani e fra le tante difficoltà c’era la carenza di viveri, che non sempre coprivano le necessità.
Guerino, uomo di collegamento della Brigata[1], fu informato un giorno che in una casa vicino al fiume Reno c’era un importante deposito di alimentari. Il proprietario di questi beni praticava il mercato nero nella zona ed era tristemente conosciuto dalla popolazione del luogo. Abitava nel paese di Longastrino ed il deposito si trovava in una casa disabitata, mezzo diroccata a causa di una bomba d’aereo.
Decidemmo di fare un sopraluogo e notammo una porticina di ferro chiusa con un grosso lucchetto. La sera stessa, assieme ad altri due partigiani che Guerino conosceva bene (ma che non avevo mai visto prima), ci recammo sul posto e con un grosso palanchino aprimmo la porta.

Una vecchia lattina d’olio d’oliva
Accendemmo la torcia e vedemmo tanto Bendidio: sacchi di pasta secca, latte di olio, formaggi, farina ed una grande quantità di scatolette. Ricordo le etichette di queste ultime con scritto “Conditutto” e “Ditta Colombani, Portomaggiore”, la Casa che aveva evidentemente confezionato il prodotto.
Nei pressi c’erano dei grandi cesti, quelli  usati per raccogliere l’uva; vicino alla concimaia trovammo una grossa carriola in grado di portare i cesti, ben riempiti, nella golena del Reno, dentro ad un capanno da caccia. Lavorammo quasi tutta la notte per trasportare tutto quel che c’era, poi incendiammo la casa.
Dovevamo far arrivare la merce nella valle dove erano acquartierati i nostri compagni. Non avevamo barche per il trasporto e Guerino si impegnò a recuperarle. Montammo di guardia giorno e notte con l’ordine tassativo di non fare avvicinare nessuno al capanno: chiunque lo avesse fatto doveva essere fermato e non dovevano esserci testimoni a tal proposito.
Andò tutto bene. Dopo due giorni arrivarono le barche lungo il fiume e portarono via tutto.
Fu un’azione riuscita bene. Tutti noi fummo contenti di esserci liberati di una merce tanto preziosa. Dopo una quindicina di giorni, Guerino mi consegnò un paio di calze di lana ed un passamontagna, disse che li aveva mandati il Comandante della base dove erano arrivate le provviste.
Era il Dicembre 1944 ed il comandante ci aveva mandato il pacco accompagnato da un biglietto con gli auguri di tutto il distaccamento e tanti ringraziamenti per il ricevuto.
                                         
La fine della guerra
Ricordo bene quando finì la sparatoria. Alcune persone dicevano che i partigiani si comportavano con troppa violenza e grande accanimento verso gente che non aveva colpe se non quella di avere avuto in tasca la tessera del Fascio. Vorrei chiedere a costoro dov’erano quando le borgate e le piazze si riempivano di facinorosi fascisti che terrorizzavano la popolazione ed in qualche caso lasciavano una scia di corpi malconci, o senza vita, o donne violentate.
So bene che c’era chi aveva la tessera del Fascio per avere un posto di lavoro, e poi c’era chi aveva la tessera per non perdere il lavoro. So altrettanto bene che, finita la tragedia della guerra, gruppi di malviventi, spacciandosi per partigiani, entravano nelle case con le armi e intimavano alle famiglie di consegnare tutto ciò che era monetizzabile. C’erano gruppi che assaltavano le Banche seminando il terrore fra una popolazione disgustata. Si scoprì, quando furono ripristinate le Forze dell’ordine, che non erano i partigiani che terrorizzavano, ma vere e proprie bande di  malviventi e delinquenti: tutto fu chiarito.
Nella prima settimana di libertà ci fu una specie di resa dei conti, non sempre giusta. Ci fu in particolare una vendetta incruenta, seppure molto umiliante, credo, per chi la subì; mi riferisco a quella che toccò alle donne che avevano avuto rapporti con i Nazifascisti che furono sottoposte alla rasatura del capo, pratica effettuata in tutta l’Europa, nei Paesi dov’era avvenuta l’occupazione tedesca.
Su questo fatto l’opinione pubblica si divise: da una parte si sosteneva la libertà di decidere del proprio corpo e si condannava la pratica della rasatura, opinione sotto questo aspetto comprensibile. Se invece si voleva vedere la cosa da un altro punto di vista, ne usciva un’altra logica: il proclama del C.N.L. diceva di combattere il nazifascismo in qualsiasi forma si manifestasse.
La popolazione di Filo, del resto, in quel combattimento si era si impegnata molto. Non c’è neppure bisogno di sottolinearlo: il paese aveva pagato fin troppo per onorare questo impegno e lo spirito di sacrificio offerto da tanta gente  non consisteva certo nell’offrire feste, né tantomeno nell’offrire il proprio corpo ad Ufficiali che forse avevano partecipato a rastrellamenti nelle Valli, dove la Resistenza operava con conseguenze talvolta drammatiche.






Alcune immagini dal film «Jovanka e le altre» (1960) che, ambientato in Jugoslavia durante il conflitto, narra di cinque donne sottoposte a rasatura punitiva per aver avuto rapporti col nemico tedesco. Nel primo piano  a sinistra, la bellissima Silvana Mangano.

(II – continua)



[1] Sulla importante figura di Guerino si veda anche in: : http://filese.blogspot.it/2014/04/lui-il-dottore-lei-linfermiera.html il brano «La prima missione nella Resistenza». Si tratta di Guerrino Bellagamba, della famiglia longastrinese dei Capucì, che all’epoca abitava nei pressi della Ciàvga dla Gazàna (Chiavica della Gazzana) a poca distanza dal Ponte sul Reno di Madonna Boschi.

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