Ricordi
di famiglia, dietro una foto inedita ed un lontano giorno di festa
di
Agide Vandini
|
Me l’ha mostrata qualche mese fa mia cugina Rita Toschi, nel corso della ricerca dedicata alla ‘Medea, questa bella foto di cui non avevo conoscenza; è un’istantanea che, come riporta l’annotazione sul dorso, risale al 1928.
Mia zia Lilia,
classe 1913, allora quindicenne e prima a sinistra nella foto, la conservò gelosamente
per tutta la sua vita fra i bei ricordi di gioventù, con buona e giustificata
ragione. Il terzo da sinistra infatti è zio Pipĕñ, alias Giuseppe Toschi (1911), allora diciottenne, fratello
di mia madre Elvira (1913) che Lilia sposò sei anni dopo.
Rita non aveva
idea di chi fossero gli altri della foto, ma uno di questi io non potevo fare
a meno di riconoscerlo. L’ultimo a destra, con tanto di doppio petto e strichèt ae’ cöl, alla stregua di Pipĕñ, è infatti mio padre Guerriero,
classe 1912, all’epoca appena sedicenne.
|
Quanto alle altre due ragazze, se non ho ancora idea di chi sia l’elegante bellezza, gomito prominente e mano sul fianco, che sta fra i miei zii, ho invece subito colto l’identità della giovane vestita di chiaro a fianco di mio padre: Elsa Minghetti, classe 1912, futura moglie di Bruno Natali che, nelle sembianze e nella postura, ricorda la figlia Lelia. Di questo ho avuto chiara conferma proprio ieri, mostrando la preziosa foto ai suoi figli.
Dalla qualità della posa, dall’abbigliamento dei ragazzi e dagli addobbi alle finestre, si evince che la foto fu scattata da un vero fotografo nella primavera del 1928 ed in un giorno di festa, davanti ad una lussuosa cabriolet dell’epoca, di certo fuori dalla portata delle tasche delle famiglie dei nostri baldi giovanotti.
Dalla qualità della posa, dall’abbigliamento dei ragazzi e dagli addobbi alle finestre, si evince che la foto fu scattata da un vero fotografo nella primavera del 1928 ed in un giorno di festa, davanti ad una lussuosa cabriolet dell’epoca, di certo fuori dalla portata delle tasche delle famiglie dei nostri baldi giovanotti.
Appoggiata al
parafango dell’auto sta una bici, molto probabilmente di Pipĕñ (poi spiegherò bene perché…). Il luogo in cui si trova il
gruppetto di giovani filesi si direbbe indubbiamente l’amato paesello, anche se
l’edificio alle spalle non è più identificabile: forse un palazzotto distrutto una
quindicina d’anni dopo dai bombardamenti alleati, come gran parte del centro
abitato di Filo.
L’anno 1928 e la
composizione del gruppo di amici ci raccontano, però, molte altre cose, storie
di cui si è spesso parlato nel mio ambito familiare e che qui, nell’occasione, mi
sembra giusto ricordare.
La famiglia dei
miei nonni materni, un ramo dei Toschi del conselicese chiamati i Capitèni,
venne a vivere in zona sul finire del 1916, alla Campagnona sotto san Biagio, una casa colonica ora sede del
laboratorio alimentare Le Romagnole fra
Case Selvatiche e la Bastia. A quel tempo mia mamma Elvira, ultima di una bella
nidiata di figli, aveva appena tre anni e Pipĕñ,
il penultimo, ne aveva due in più.
Da quel luogo, una
decina d’anni dopo, i Capitèni si
trasferirono in territorio di Filo, sotto la Lodigiana, alla Risarola (la Cašèta). Lì non rimasero molto, appena
un paio d’anni, anni che tuttavia furono molto importanti e cruciali per gli
adolescenti Elvira e Pipĕñ.
Mia madre qui
conobbe e s’innamorò di mio padre Guerriero detto Ghéo. Il giovinetto, che lavorava come frabẽñ (ovvero apprendista fabbro) ae’ Stalòñ, centro operativo poco distante, si recava di tanto in
tanto alla Cašèta per piccole
riparazioni ed interventi. Fu così che s’accese la scintilla.
Pipĕñ, a sua volta, conobbe e s’invaghì della
filese Lilia, figlia maggiore della ‘Medéa,
la cui intrigante e complessa storia ho qui raccontato proprio di recente.
Purtroppo in
quel sito mio nonno rimase davvero poco. Agli inizi del ’28 la famiglia
contadina, ridottasi nel numero dei componenti, si spostò nel voltanese, alla
Marmana nei pressi di Passogatto, quando l’età ancora troppo verde delle
fanciulle, per le usanze dell’epoca, non permetteva di frequentarsi in casa (par c’mandê
d’andê in cà…), ovvero di essere veri e propri morosi e porre le usuali premesse
per il matrimonio.
Fu così che per
un paio d’anni, dagli inizi del ’28 fino al maggio del ’30 (quando nonno
Pasquale e nonna Angiùla tornarono
nel filese alla Rossetta, sotto Lavezzola) Ghéo
e Pipĕñ s’incrociarono spesso a
cavallo delle loro bici quasi a metà strada, al gattolo posto sul Santerno,
ovvero alla passerella che consentiva l’attraversamento del fiume nella
località che, per l’appunto, aveva preso il nome di Pàs de’ Gàt: l’uno per cercare di vedersi con l’Elvira alla
Marmana, l’altro per incontrare la Lilia in quel di Filo.
Ecco spiegato perché
in quella foto e in quel gruppetto non poteva esserci mia madre, quindicenne da
poco trasferitasi a Voltana, ed ecco anche perché il luogo ritratto è da
considerarsi con buona certezza Filo, poiché difficilmente a quel tempo un
terzetto di ragazze quindicenni avrebbe avuto il permesso di recarsi altrove;
infine, s’intuisce a sufficienza perché la bici è quasi certamente di Pipẽñ, l’unico che a Filo era costretto
a venirci con quel mezzo per corteggiare la sua Lilia. Una bici che egli ha appoggiato
temporaneamente al parafango della cabriolet, giusto il tempo per uno scatto del
fotografo, sia pure con l’avvertenza di tenere la filarìna a distanza, affinché la foto possa essere mostrata a
chiunque, anche ai familiari, anche ad Elvira. Quest’ultima, pur lontana quel
giorno, non poteva certo ingelosirsi di Elsa che sapeva coetanea di mio padre e
ben corteggiata dal suo amico e compagno Bruno.
Ragazzi e
ragazze belli, baldi e spensierati nella loro prima giovinezza. Una
spensieratezza che durò poco.
Tutto cambiò nel
giro di un paio d’anni, allorché il destino sembrò beffarsi dei sogni più belli
ed il mondo cadere addosso ad Elsa, Lilia ed Elvira, quest’ultima ormai tornata,
coi genitori e con Pipĕñ, a vivere
alla Rossetta, a due passi da Guerriero.
Giuseppe detto Pipẽñ, Guerriero detto Ghéo, e il suo amico Bruno dla China, furono infatti bruscamente arrestati
sul finire del 1930, neppure maggiorenni, assieme ad altri 19 filesi, perché attivi antifascisti e, in quanto tali,
incarcerati, processati al Tribunale Speciale di Roma nell’aprile del ’31. Furono
pronunciate nei loro confronti sentenze mitigate (inferiori a quanto chiesto
dal PM), eppure durissime. Il primo, mio zio, fu assolto dopo alcuni mesi di
detenzione, gli altri due invece, per «diffusione di volantini» e «propaganda»,
furono condannati a ben 18 mesi di galera (tutti scontati) e tre anni di
vigilanza speciale (in parte condonata).
Fatto sta che la
mia mamma, all’epoca ancora diciassettenne, si ritrovò con l’adorato fratello
ed il moroso entrambi in prigione, e questo quando ancora non conosceva come
tale la futura suocera, ossia la mia nonna Agida Cavalli, caduta tragicamente
14 anni dopo per mano fascista, salvando, di fatto, suo figlio e mio padre
divenuto partigiano. Ad Agida comunque mia mamma si aggregò per andare da
Guerriero, ad Arezzo, dove lui scontava il resto della pena dopo la sentenza.
Dovette fingere di esserne la sorella, come testimoniano la foto e l’annotazione
sul retro, che qui pubblico per la prima volta, e che lei dovette presentare in
quella forma per essere ammessa al colloquio, un cimelio che ancora mi emoziona
e che conservo con grande orgoglio.
Queste le due foto, che mio padre conservava nel suo
portafogli e che, come si nota dai timbri e da quanto scritto sul dorso, furono utilizzate per i colloqui nel carcere
di Arezzo nel maggio del 1931. Mia madre vi giunse in treno, accompagnata da Agida, futura suocera, ma
fu ammessa al colloquio soltanto due giorni dopo di lei, e fingendosene la
sorella.
A destra,
mia nonna Agida Cavalli, e nel dorso della foto: «Tua madre Agida» (8 maggio
1931).
Sotto, mia
madre Elvira Toschi; nel dorso della foto ci sono scritte nei due sensi. Nell’immagine
capovolta si legge: «Tua sorella ti
bacia tanto» (10 maggio 1931).
|
|
|
|
|
1930- Le foto
del carcere di Bruno e Guerriero
(E.Checcoli,
Filo della memoria, Prato, Ed. Consumatori,
2002, p.87)
|
Anche la
vigilanza speciale a domicilio fu dura da scontare, poiché mio padre doveva
rincasare per le otto di sera (col carabiniere che soleva controllare fin
sotto le coperte) e non poteva uscire dal comune di residenza, ergo: non gli
era possibile recarsi alla casa di mia madre, posta in comune di Conselice,
per gli strani confini che abbiamo e che alla Rusèta appaiono più strampalati che altrove.
Ghéo, fabbro ormai maggiorenne, perso il
lavoro alla Lodigiana, aprì bottega a Bando dove si recava di buon’ora ogni
mattina. Cessata la vigilanza speciale fu ben presto chiamato alla ferma
militare in Libia.
Prima però
sposò mia madre il 27 settembre del ’34 nella chiesa di Lavezzola, con mia
sorella già in viaggio (nacque il 7 novembre di quell’anno).
Mamma Elvira,
in stato di avanzata gravidanza, rimase coi genitori e Carla vide allora la
luce alla Rusèta, nella casa di nunì Capitèni. Coi nostri nonni materni
continuò a vivere anche dopo il trasferimento nella loro nuova casa alla
Campeggia di Filo, fino al ritorno definitivo di babbo Ghéo, cosa che avvenne nell’autunno del ’36, al suo rientro dalla
Guerra d’Abissinia.
|
Anche le due
coppie di amici di Guerriero ed Elvira, quelle espressamente richiamate dalla
foto del 1928, si erano sposate in quello stesso anno 1934.
Bruno Natali ed Elsa Minghetti si erano
infatti uniti in matrimonio alla Chiesa Parrocchiale di Filo il 14 Aprile,
sposati da Don S-ciòp, quel Don Giovanni
Bezzi che mi avrebbe battezzato undici anni dopo.
Nella stessa
chiesa e con lo stesso parroco il 10 giugno del 1934 avevano poi celebrato le
loro nozze Lilia e Pipèñ. Testimoni: Ghéo ed Elvira.
Mia madre Elvira e mio padre Guerriero
intorno al 1934 qualche mese prima del loro matrimonio.
|
Da
sinistra:
Bruno ‘d Turaza (Fiorentini), Bruno
dla China (Natali), Ghéo Vandini e Pipĕñ Toschi alla festa dell’Unità del 1978. E’, questa fra gli
amici di sempre, una delle ultime foto scattate a mio padre che ci lasciò l’anno dopo.
|
Nessun commento:
Posta un commento